Era l'autunno del 1995, da quando ero al Liceo sognavo di fare un viaggio
in Cambogia per vedere i Templi nella jungla, leggo sui giornali che è
stata firmata una tregua di 6 mesi tra i Khmer Rossi e l'esercito governativo.
Un amico, appena tornato da un soggiorno di una settimana, mi racconta
che non ci sono grossi problemi : bisogna soltanto informarsi sul posto
prima di muoversi. Ma questo ormai è vero in tutto il mondo. Mi
basta questo stimolo per decidermi a realizzare il mio vecchio sogno.
Arrivato ad HoChiMin City (la vecchia Saigon!) m'imbarco su un Tupolev delle Vietnam
Airlines ed arrivo a Phnom Penh, con 20$ e 2 foto-tessera (bagaglio indispensabile,
insieme ad una fotocopia del passaporto, di qualunque previdente viaggiatore
solitario) mi procuro il Visto all'ufficio doganale. Devo procurarmi un
altro biglietto aereo ma sono le 17, sta iniziando il crepuscolo e gli
uffici dell'aeroporto sono già chiusi, quindi rassegnato salgo su
una specie di ApeCar e mi faccio trasportare al centrale Hotel Capitol,
un alberghetto di livello decisamente scarso, in cui convergono tutti i
viaggiatori solitari, essendo segnalato dalla Lonely Planet, la mitica
Guida australiana compagna di tanti viaggi. Il proprietario mi propone
un letto in una camerata con altri turisti per 1$ e mezzo oppure una camera
singola per 2$ e mezzo, crepi l'avarizia : opto per la seconda soluzione.
Depositato lo zaino in camera, scendo in strada per bere qualcosa nel baretto
sottostante, frequentato in quel momento da diversi turisti, e subito vengo
avvicinato da un personaggio locale che si presenta come Signor Chum e
mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Gli spiego che devo assolutamente
trovare un biglietto aereo per Siem Reap e, avendo ricevuto la sua disponibilità
ad aiutarmi, salgo con lui sul suo motorino. Attraversiamo la città
già buia lungo viali completamente deserti, costeggiati da case
con finestre e porte sbarrate, e ci fermiamo nell'unica strada movimentata.
Da un palazzo esce un signore distinto, in giacca e cravatta, che sale
con noi sul motorino e, dopo pochi minuti di strada, raggiungiamo la sua
piccola agenzia turistica. Il signore elegante apre il suo piccolo ufficio
ed io riesco, ancora incredulo, a prenotare un biglietto per il volo dell'indomani.
Phnom Penh è "stranamente" tranquilla appena cala il buio
ma è pur sempre una città asiatica: basta chiedere e si trova
tutto!
Il giorno seguente,in attesa del volo, decido di dedicare la mattinata
alla visita culturale di questa città martoriata. Come mia abitudine
concordo prima il prezzo dei servizi che richiedo, per evitare discussioni
alla fine, ed ottengo da Chum un giro della città in motorino, di
mezza giornata, per soli 2 $. Ci dirigiamo verso la periferia, superiamo
un ponte in legno costeggiato da palafitte per poi immetterci in una strada
in terra rossa. Il paesaggio, distese a perdita d'occhio di verdi risaie,
affascina ma, improvvisamente, un cratere dall'aspetto sinistro interrompe
la strada e mi ricorda che siamo nei pressi dei tristemente famosi "killing
fiels", i campi di sterminio creati da PolPot e dalla sua cricca.
Sono rimaste solo delle fosse circondate da filo spinato arrugginito, ma
Choeung Ek (questo il nome del campo di sterminio) è molto frequentato
dagli indigeni che ci tengono a raccontare la triste storia del loro paese
ai pochi turisti che arrivano fin qua. Una signora di mezz'età mi
illustra, gentilmente, il piccolo museo all'aperto, attirando la mia attenzione,
con insistenza e orgoglio, sulla lapide, posta all'entrata, dove il popolo
cambogiano ha inciso sulla pietra la sua volontà di non consentire
mai più il ripetersi di simili eventi. Mi soffermo ad osservare
lo stupa (tempio buddhista) che conserva al suo interno tutti i teschi
ritrovati nelle fosse comuni : il grosso taglio evidente su tutti i crani
mi riporta alla mente uno degli orribili motti di PolPot "non si spreca
una pallottola per i prigionieri!". Dopo questo primo approccio, continuo
la mia visita alla città e mi faccio condurre a Tuol Sleng, la famosa
scuola-prigione, che è stata lasciata esattamente nello stato in
cui la trovarono i liberatori vietnamiti. Qui l'impatto è ancor
più sconvolgente: il cartello che riporta le leggi in vigore all'interno
di questo luogo di sofferenza, le anguste celle che impediscono di stare
distesi, le fotografie delle vittime, le stanze con gli strumenti di tortura,
mi producono un'angoscia crescente che mi spinge, alla fine, ad uscire
quasi correndo da questo posto e dall'orrore che vi si respira. Mi occorrono
quasi due ore, che trascorro muto e immerso nei miei pensieri, per superare
l'impatto prodotto dal "toccare con mano" le atrocità
che ha subito questo stupendo popolo ma, nonostante tutto, resto convinto
che un viaggiatore debba visitare anche questi luoghi per poter meglio
comprendere l'anima di un popolo e trasmetterla, a chi non potrà
conoscerla di persona, nel modo più fedele e completo possibile,
senza i filtri dei mass-media.
Al rientro dalla visita Chum mi propone,
ed io accetto volentieri, un suo amico come guida nella mia prossima destinazione:
lo troverò all'aeroporto di Siem Reap e mi guiderà, con l'immancabile
motorino, nella visita ai monumenti circostanti. Nel primo pomeriggio m'imbarco
sull'aereo per Siem Reap, curioso di vedere come la mia nuova guida riuscirà
a riconoscermi ma, appena sbarcato, dopo un'ora di volo tranquillo, vedo
tra la folla variopinta dell'aeroporto un uomo che espone un foglio di
carta bianca con scritta verde in inglese: "Benvenuto Signor Marco,
Io sono il Signor Heng!" . Fin troppo facile!! Gli spiego come sono
abituato a muovermi, e soprattutto, che non cerco alloggi di lusso ma quanto
di più vicino alle usanze locali. Mi sistemo in una piccola GuestHouse
familiare per 4 Dollari a notte in Siem Reap, un piccolo paese, che sta
rinascendo grazie all'arrivo dei turisti che vi alloggiano per accedere
alla zona archeologica, ma che mantiene intatte le sue tradizioni con il
rumoroso e colorato mercato pomeridiano. Dopo aver concordato in 3$ al
giorno il prezzo per il trasporto con Heng e comprato all'ufficio turistico
un biglietto valido 4 giorni per la visita alla zona dei monumenti, consapevole
che il tramonto e l'alba sono i momenti migliori per assaporare la suggestione
offerta dal contrasto tra i templi e la vegetazione selvaggia che avanza
implacabile. Non mi resta che sperare nel bel tempo.
In motorino giungiamo
in prossimità della prima Porta di Angkor Thom, la città
forticata accerchiata da un larghissimo fossato in cui pare vivessero feroci
coccodrilli, e superato l'affascinante ponte su cui campeggiano alla destra
54 statue di divinità ed a sinistra un uguale numero di statue di
demoni ancora ben conservate, rimango letteralmente estasiato davanti alle
tre gigantesche facce che sormontano la porta guardandomi con cipiglio
minaccioso. E' proprio un luogo senza tempo. Spinto dall'incredibile suggestione
del luogo, decido di entrare a piedi e chiedo al mio conducente di aspettarmi
oltre. Fatti pochi passi, mi ritrovo in piena jungla. Sorpreso, consulto
l'immancabile guida dove leggo che Angkor Thom si estende per circa 10
chilometri quadrati. Sarà meglio risalire sul motorino! Fortunatamente
Heng non mi ha preso sul serio e mi attende poco più avanti. Prima
meta è il Bayon, un immenso complesso architettonico sormontato
da decine di facce di divinità che guardano in ogni direzione, al
tramonto è veramente spettacolare tanto che le facce sembrano cambiare
colore a poco a poco. Incurante dei tanti ed evidenti cartelli di "Pericolo
mine", un gruppo di turisti occidentali sta tranquillamente scattando
fotografie camminando nell'erba alta al di fuori dei sentieri battuti:
l'arrivo di un gruppetto di bambini, di cui uno senza un braccio ed uno
con una protesi al posto della gamba, si rivela più efficace dei
semplici cartelli ed i turisti, convinti, si mettono ordinatamente in fila
indiana e continuano la loro visita, improvvisamente silenziosi.
Per tre
giorni continuo a scorazzare avanti e indietro tra le varie porte monumentali,
trovando posti sempre diversi in cui perdermi a fantasticare. Nell'immenso
campo vicino alla Terrazza del Re Lebbroso e alla Terrazza degli elefanti,
due stupendi punti sopraelevati che consentono un'ampia visione panoramica
dell'immenso complesso monumentale, stanno smontando dei grossi palloni
che riproducevano perfettamente Angkor Wat (Wat significa tempio, n.d.r.).
Erano stati montati in occasione della recente eclissi totale di sole,
per festeggiare il grosso investimento turistico che una delle Tigri asiatiche
ha fatto in questa zona. Non posso fare a meno di pensare che il turismo,
a volte causa di degrado in tanti stupendi luoghi e spesso prima causa
per la demolizione di antiche tradizioni culturali e sociali, avrà
un effetto positivo per la pace e la prosperità di questo paese
martoriato da 30 anni di massacri e guerriglie. Seduto sulle scale di un
tempietto, accerchiato dalle immense radici di una pianta secolare, in
compagnia di un turista australiano, rimango un'ora a fantasticare con
lui su come doveva essere la vita qui nel periodo di massimo splendore;
e ci immaginiamo una parata di elefanti e cavalli rivestiti d'oro, seguiti
dalle varie coloratissime tribù e dalle immancabili danzatrici.
Quando arrivo a Ta Phrom, il tempio Buddhista rimasto esattamente come
era al momento della sua scoperta nella jungla, completamente preda della
vegetazione che ne è diventata parte integrante, trovo soltanto
bambine del luogo che disegnano antichi personaggi sulla terra aiutandosi
con dei rametti. Una ragazzina che parla qualche parola d'inglese mi fa
da Guida, e alla fine non accetta nessuna mancia accontentandosi di vendermi
un pò della sua mercanzia: magliette e kramas, le coloratissime
sciarpe di cotone a quadretti che portano tutti i cambogiani. Visito il
favoloso Angkor Wat all'alba e al tramonto per godermi tutti i giochi di
luce ed i suoni della jungla che in queste ore sono più intensi:
è uno di quei posti che da soli valgono la fatica del viaggio.
In
serata dopo aver ricevuto tutte le assicurazioni del caso sulla sicurezza
del tragitto, vado con Mr.Heng a cercare i biglietti per il ritorno a PnomPenh.
Usciamo dal paese e dopo qualche centinaio di metri tra le risaie, ci addentriamo
in un piccolo agglomerato di palafitte, una Comune. Ci togliamo subito
le scarpe e saliamo le scale per entrare in una palafitta, nella parte
sottostante all'aperto riposano due bufali ed alcuni tipici maiali neri
con gli immancabili cani di guardia, a cui normalmente è affidato
il compito di condurre al pascolo i bufali. E' l'ora di cena e nella grande
sala illuminata da due vecchie lampade a petrolio, con pavimento in bambù
sul quale riposano due bambini piccoli, ci sono una tavolata di soli uomini
ed una di sole donne. Da buon occidentale mi avvicino istintivamente alla
tavola con gli uomini ma, essendo lì per affari, vengo invitato
a sedermi al tavolo delle donne : quella cambogiana è una società
matriarcale! Divido il pasto con loro, mangiando le loro rinomate tagliatelle
nonchè abbondanti porzioni di verdura cotta rimanendo stupito dalla
minima quantità di spezie presenti, compro il biglietto e due ore
dopo l'arrivo, io e Heng ce ne andiamo scortati da un nugolo di bambini
festanti.
Uscendo dal mio alloggio all'alba del giorno successivo, trovo
Heng che mi aspetta con la fida motoretta e partiamo per arrivare, dopo
10Km., ad un piccolo mercatino. Mi procuro una bottiglia d'acqua, tre banane
ed una baguette (eredità del colonialismo francese) da consumare
durante il viaggio. Superate le ultime bancarelle, sbirciando le appassionate
trattative che animano il mercato, appare il molo dove si trova ormeggiato
l'aliscafo che mi ricondurrà a Pnom Penh. E' una specie di siluro
costellato di piccoli oblò in plastica gialla e rossa. L'idea di
trascorrere quattro o cinque ore all'interno di quel siluro non mi entusiasma;
accomiatatomi dal sempre sorridente Heng, salgo a bordo e mi siedo vicino
alla porta ma, dopo la partenza, una volta controllatomi il biglietto,
vado a sedermi all'esterno, sul tetto del siluro, dove già si trovano
tre giovanissimi militari., Di fianco al corso d'acqua alcune capanne di
paglia spiccano tra alberi di sesamo (il simbolo della Cambogia), mangrovie
e vaste coltivazioni di tabacco; comincio a fotografare lo stupendo panorama
naturale suscitando la curiosità di un ragazzino cambogiano, Kim,
che insieme al padre si è nel frattempo seduto di fianco a me. In
breve mi ritrovo, con qualche semplice parola in inglese e molta gestualità,
ad illustrare l'utilizzo dei miei obbiettivi fotografici sia a Kim che
ai tre giovani interessatissimi militari. Al primo imbarcadero siamo subito
accerchiati da un nugolo di barchette con donne che vendono provviste,
ed il padre di Kim compra tre petti di pollo (uno anche per me!). Ricambio
la cortesia acquistando per tutti banane fritte avvolte in grosse foglie
(a volte non ho assolutamente idea di cosa io stia mangiando, ma l'importante
è che sia ben cotto!). Intorno a noi, anche gli altri passeggeri
dell'aliscafo, tra cui solo altri tre occidentali, stanno contrattando
il pasto con le barcaiole che, nel frattempo, sono salite a bordo. Terminato
il frugale pasto, metto subito alla prova uno dei militari chiedendogli
di scattarmi una fotografia insieme a Kim e al padre, e già pregusto
la gioia che proveranno i miei due compagni di viaggio ricevendo, dall'Italia,
la mia lettera contenente la foto-ricordo del nostro incontro. Superato
il Lago Ton Le Sap, popolato solo da sparute barchette di pescatori famosi
per l'abilità con cui governano i timoni usando soltanto i piedi,
ci addentriamo nell'omonimo fiume e, dopo un'altra ora abbondante, attracchiamo
al molo di Pnom Penh.
Non appena sbarcato mi sento bussare sulla spalla:
chi poteva essere se non il signor Chum con la sua immancabile sciarpa
a quadretti gialli e bianchi. Saluto Kim ed il suo gentilissimo padre e
mi dirigo nuovamente al fatiscente Hotel Capitol. In serata offro la cena
d'addio al mio amico in un ristorante a due piani sulla strada 182, popolato
solo da indigeni. A tavola, gli chiedo di ordinare, anche per me, un menù
tradizionale cambogiano : cominciano ad arrivare spaghetti e verdure crude,
pezzi di carne e strane polpette, due fornellini e due pentole. Pochi minuti
dopo, quattro cameriere si trovano impegnate, tra la divertita curiosità
degli altri commensali, ad insegnare a me, buffo occidentale, come si mangia.
Il giorno successivo, ho ancora una mezza giornata di tempo prima di ripartire,
Chum mi consiglia di visitare il movimentato mercato dell'antiquariato,
dove si possono fare buoni affari. Mi ricordo che un amico, prima della
partenza, mi aveva chiesto di cercare degli accendini Zippo originali (quelli
in dotazione ai soldati americani e non i divertenti souvenir che si possono
trovare ad ogni angolo del Vietnam). Dopo aver provato senza successo con
due commercianti, ne parlo al mio solito amico-guida cambogiano. Immediatamente
mi conduce verso la periferia dove, fermo al lato della strada, troviamo
un vecchietto con un carretto di sigarette. Con un fornello artigianale
ci prepara un Thè e intavoliamo una brillante conversazione in francese.
Evidentemente l'anziano signore cambogiano mi ha preso in simpatia e, come
se mi avesse letto nel pensiero, mi racconta come ha fatto, lui che parla
Francese (una colpa gravissima!!), a sopravvivere alle atrocità
dei Khmer rossi. Alla fine, estrae da un sacchettino nascosto tra i legni
del carretto due Zippo originali che mi cede ad un prezzo ridicolo, chiedendomi
in cambio, di conservarne almeno uno in memoria sua e del suo popolo. Riconoscente,
suscito il suo entusiasmo regalandogli un pacchetto di sigarette americane.
Ancora oggi, guardando questo accendino, che ho sottratto alle allettanti
offerte di diversi collezionisti, mi ritrovo a pensare a quell'incontro,
alla semplicita ed alla dolcezza di questa stupenda gente che non fa alcuna
fatica a regalarti, sempre, almeno un sorriso anche se porta ancora negli
occhi il ricordo dell'orrore che ha vissuto.
Saluto calorosamente Chum,
primo responsabile della piena riuscita di questo viaggio, regalandogli
l'ultimo gradito pacchetto di sigarette. Nel primo pomeriggio, quando risalgo
sul Tupolev per il lungo viaggio di ritorno, sono grato a questo popolo
che mi ha così arricchito sul piano umano.
Due settimane fa ho incontrato
un vecchio amico che, con entusiasmo, mi ha subito detto "Sai dove
sono stato il mese scorso? In Cambogia!". Mi ha raccontato che si
può circolare con la massima tranquillità e, soprattutto,
che la si può visitare tutta senza grossi problemi. Un'ora dopo
eravamo a cena in una trattoria, con davanti una vecchia cartina della
Cambogia in lingua francese e già cominciavo a sognare il mio ritorno.
Le fotografie del mio secondo viaggio in Cambogia.
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ultimo aggiornamento 19/10/2021