ALCUNI ANNI FA, in preparazione del mio primo viaggio alle Maldive, feci il giro delle mie solite librerie, e passai al setaccio anche i principali siti di vendita di libri sul web, per approfondire la conoscenza di questa destinazione. Trovai guide turistiche, in gran parte focalizzate sulla descrizione dei servizi offerti nei villaggi vacanza multistellati, e qualche carta geografica. Con non poca sorpresa dovetti però constatare che non esisteva alcun volume, in italiano, dedicato a storia, politica, economia, arte, ambiente, usi, costumi, società delle Maldive, e neanche un racconto di viaggio. Allargando la ricerca a librerie e siti web internazionali venne fuori che qualcosa di più era stato scritto in altre lingue, frutto del lavoro di politologi indiani, di un esploratore arabo del milletrecento, di uno francese del seicento, di un viaggiatore inglese degli anni trenta e di un archeologo norvegese degli anni ottanta del secolo scorso, e poco altro. Anche se si tratta di una piccola nazione, e non mi aspettavo certo scaffali pieni, la scena letteraria era veramente desolante.
In fondo è un paese visitato da oltre un milione di turisti ogni anno e sono stati proprio gli italiani i primi a lanciare le Maldive sul mercato turistico europeo negli anni settanta. Fino a qualche anno fa eravamo la nazionalità con il maggior numero di presenze, anche se oggi il primato spetta alla Cina: i tempi cambiano. Questo volume non ambisce certo a colmare tale vuoto, ma più modestamente mira a proporre qualche spunto di riflessione e di approfondimento attraverso il racconto di qualche breve viaggio fatto colà durante il primo decennio di questo millennio, girando in barca tra i principali atolli di questa piccola repubblica islamica.
Questa non è una guida di viaggio. Non mira cioè a suggerire questa o quella sistemazione, non dà consigli su dove mangiare, dormire o fare acquisti. Di guide per questo scopo ce ne sono già tante, per ogni gusto ed esigenza. Prendendo spunto da quanto visto ed ascoltato in questi viaggi, e da quello che ho potuto studiare, vorrei invece proporre al lettore qualche considerazione di carattere più generale, accennando a questioni storiche, religiose, politiche, economiche, sociali ed ambientali che penso possano essere di interesse per chi si accinge a visitare le Maldive. Spero che queste mie pagine siano utili per chi avrà tempo e predisposizione d’animo per cercare non solo qualche forte sensazione in immersione, ma soprattutto le emozioni che possono dare gli incontri con gli abitanti. Ed anche per chi magari deciderà di non uscire dal suo villaggio artificiale e limitarsi a godere delle spiagge e del mare. E magari per quelli che alle Maldive non ci andranno mai (peccato per loro) ma vorrebbero soddisfare una curiosità su questo paese molto speciale.
Le Maldive sono da sempre associate all’idea dell’arcipelago. La parola «Maldive» deriva dal sanscrito e vuol dire «collana di isole». Qualcuno aveva riferito ad Immanuel Kant che le Maldive consistevano di dodicimila isole. Il grande filosofo tedesco, tra le sue tante occupazioni, insegnava anche geografia, ma non viaggiò mai in vita sua. Si informava sul mondo interrogando mercanti e viaggiatori che passavano per la natìa Koenigsberg, l’odierna Kaliningrad. La cifra di dodicimila era quella più accreditata al tempo. Kant però, intellettualmente ben attrezzato di sano scetticismo illuminista, capì che si trattava di una «esagerazione asiatica», anche perché gli era stato correttamente riportato che molte delle isole erano nude lingue di sabbia, che restano completamente sommerse con l’alta marea. Esagerazione sì, ma quante erano allora queste isole? Kant, che pure tanto aveva contribuito allo scibile umano, morì senza conoscere la risposta a questa domanda. Certo avrebbe potuto fare un’eccezione alla sua ferrea stanzialità, andare alle Maldive e verificare. In fondo proprio lui insegnava che alla conoscenza analitica, sui libri, bisogna coniugare quella empirica, andando a verificare di persona. Ma preferì continuare a fare la spola tra casa ed università.
Il paese dei mille atolli, lo chiamò più recentemente il naturalista austriaco Irenaeus Eibl-Eibesfeldt, esagerando smisuratamente pure lui ma rendendo l’idea di un numero elevato fino all’inverosimile. Oggi fortunatamente abbiamo dati molto più attendibili sul numero di atolli ed isole che compongono le Maldive, e li condividerò con il lettore che avrà la pazienza di seguirmi.
Ma al di là del numero esatto delle isole, il mito del paradiso terrestre, di isole lussureggianti abitate da indigeni amichevoli ed ospitali, si diffondeva sempre più nell’Europa in un’epoca di grandi esplorazioni oceaniche e rinnovato interesse scientifico. Era la fine del settecento, non c’era ancora turismo alle Maldive, al dominio olandese sulle isole stava subentrando l’egemonia degli inglesi, che erano preoccupati più di sviluppare il commercio che dall’urgenza di trovare nuovi luoghi ove passare le vacanze.
Molto è cambiato nei due secoli successivi, anche gli inglesi se ne sono andati e le Maldive sono oggi una repubblica indipendente, ma le loro caratteristiche fondamentali nel nostro immaginario collettivo sono rimaste sostanzialmente le stesse. E non più solo per pochi studiosi, commercianti o esploratori, ma per centinaia di migliaia di turisti che ogni anno vi cercano soprattutto riposo dallo stress lavorativo, abbronzatura rapida, frivole distrazioni, magari un po’ di romanticismo preconfezionato per una luna di miele tutto compreso. Oppure che ci vanno per qualche giorno di distacco da tutto e da tutti, to get away from it all, per dimenticare qualche dispiacere sentimentale o professionale.
Tutto questo è positivo ed ha sicuramente contribuito al progresso del paese, che oggi gode del più alto tenore di vita dell’Asia meridionale. Questo progresso sta ponendo però nuove sfide che i maldiviani devono vincere affinché lo sviluppo in corso sia sostenibile nel lungo termine, vuoi dal punto di vista economico, vuoi da quello ambientale. Anche sul piano culturale e politico, ormai la tecnologia ha sconfitto l’isolamento una volta imposto dalla geografia. Cellulari ed internet sono onnipresenti, ed il cambiamento in atto è inevitabile. Da come sarà gestito l’incontro tra tradizione e innovazione dipenderà l’evoluzione dell’identità di questa società.
Anche io sono andato alle Maldive come tanti altri, per il sole, il mare e soprattutto per i fondali, con qualche buon libro tra le mani (non avevo ancora il mio ormai inseparabile Kindle!) ed un paio di auricolari nelle orecchie per ascoltare buona musica tra una nuotata e un’immersione. Però ho anche cercato di andare un po’ al di là, scegliendo di vivere quasi sempre in barca, potendomi così spostare di atollo in atollo, e sforzandomi di stabilire un minimo di contatto con le popolazioni delle isole. Infatti queste ultime sono oggi accessibili e disponibili, per chi lo vuole, più di quanto non lo fossero in passato, nonostante la cosa non sia particolarmente incoraggiata dalle autorità.
Ci sono andato molte volte, sia da solo, sia con qualche amico subacqueo, sia in gruppo. Dunque ho vissuto alcune delle esperienze riportate qui più intimamente, altre invece le ho condivise con amici e conoscenti, altre ancora con estranei compagni di viaggio. Per questo motivo nello scrivere salterò dalla prima persona singolare a quella plurale.
Il libro non è una narrazione in ordine cronologico dei miei viaggi. Ho preferito riorganizzare questi ultimi in un unico racconto, tracciando una sorta di metaitinerario con una sola partenza ed un arrivo. Ho annotato per alcuni episodi l’anno in cui sono successi, quando la data è necessaria per mettere i fatti nella giusta prospettiva. Nel riportare incontri ed impressioni, mi sono preso qualche piccola libertà di fare un po’ d’ironia (e d’autoironia) che non guasterà se questo libro sarà letto durante una vacanza disintossicante sulle spiagge maldiviane. E vorrei senz’altro incoraggiare il lettore, magari incuriosito dalle pagine che seguono, a non fare come Kant e invece visitare senz’altro le Maldive. Cercando di farlo in contatto diretto con la simpatica e gentile popolazione e con la fantastica natura, magari rinunciando a qualche comodità.
I fatti e i luoghi che racconto in questo libro sono reali, salvo dove diversamente indicato. Per motivi di riservatezza ho però cambiato alcuni nomi propri delle persone che ho incontrato o che hanno viaggiato con me.
È finita un’altra giornata di sole, ora tocca alla luna piena, che si è già levata alta all’orizzonte e si rispecchia trionfalmente sulla laguna appena increspata. Ci prepariamo per andare a pesca. Ami, filo di nylon, esche, torce elettriche, l’equipaggio controlla tutto, poi in quattro saltiamo a bordo del barchino d’appoggio, poco più che una zattera di vecchie assi di legno che si tiene insieme un po’ per miracolo. Dopo qualche strappo di avviamento a vuoto e uno scoppiettamento esitante, il fuoribordo inizia a borbottare e si parte in direzione est, verso le secche al limite della barriera corallina. A mano a mano che ci allontaniamo dalla barca il mare si fa più grosso, niente di ché ma si nota la differenza rispetto alla calma piatta che ci siamo lasciati dietro nella rada di Fulidhoo. Ci allontaniamo ancora, le onde si fanno più lunghe, e le ultime luci del paese e della nostra barca Wattaru spariscono in lontananza. Siamo praticamente in mare aperto, ancora poche centinaia di metri ed usciremmo dalla protezione della ciambellona dell’atollo. Procediamo con lentezza, i banchi di corallo appena affioranti sono appena visibili al chiaro di luna e con le onde rischiamo di far danni seri al piccolo barchino d'appoggio. Ahmed è in piedi a prua, si regge in equilibrio con la cima dell’ancora e guida la barca attorno agli scogli a pelo d’acqua. Dopo un buon quarto d’ora gettiamo l’ancorotto, inneschiamo gli ami ed iniziamo a pescare.
O meglio, ad aspettare. I minuti passano lenti sul nostro guscio di noce, è piacevolissimo farsi cullare al chiaro di luna, ma di pesci non ne abbocca neanche uno. I nostri marinai dopo un po’ si spazientiscono. Tiriamo tutto su, ancorotto, esche e tanta acqua fresca, e si riparte; altro giretto per scogli affioranti e quindi, dopo una breve consultazione tra di loro, decidono di riprovare. Pluff! Ancorotto in mare, filetti di pesce sugli ami e si ricomincia. Capiamo subito che la musica è cambiata: dopo un paio di falsi allarmi («hahaha, pesce corallo!» se la ridono i due mentre qualcuno di noi combatte con l’amo incastrato nella barriera sottostante) iniziano a venir su begli spigolotti di un buon chiletto ciascuno. Be’ l’onore è salvo. Ed anche la cena a base di pesce, con l’olio d’oliva italiano naturalmente. Comincia a far tardi, in barca ci staranno aspettando per cena, ma dobbiamo cercare di prendere ancora un po’ di pesce, siamo in tanti da sfamare a bordo. Ed è a questo punto che sento tirare veramente forte alla mia lenza. Curiosamente, non batto ciglio, sono infatti sicuro che si tratti di un corallo e do qualche strattoncino per disincagliare l’amo, che però continua a tirare il filo di nylon che si tende pericolosamente, sta per rompersi. C’è corrente, immagino la tensione sia dovuta alla barca che si sposta mentre il corallo resta fermo, e passo la lenza a Ahmed perché mi aiuti a disincagliarla. Lui dà uno strattone e, senza scomporsi, sentenzia: «Big fish!».
A questo punto comincio a scaldarmi. L'adrenalina sale, deve essere veramente grosso per tirare a quel modo. Mi sento per qualche minuto come il pescatore in Il vecchio e il Mare quando abbocca la grande preda che comincia a trascinargli la barca. Ahmed comincia a recuperare la lenza, sto pronto per dargli una mano ma ovviamente non ne ha bisogno. Poi mi passa il filo di nylon, mi dice di fare piano, ed infatti, stranamente, il pesce ha smesso si strattonare. Continuo a recuperare, ma di tanto in tanto Ahmed prende lui in mano la lenza. Ci sta mettendo molta attenzione a questo pesce, deve avere i suoi buoni motivi. Ed infatti... dopo un po’ di tira e molla vediamo dimenarsi sottobordo una cernia monumentale. È sfinita, si muove poco, o forse chissà, è vecchia, malata, ferita? La issiamo a bordo, e si va a depositare senza tante storie sul fondo della barca, è uno spettacolo! Ahmed la stima sui 15 chili di peso, anche scontando un po’ l’inevitabile euforia da pescatore, sicuramente siamo oltre i dieci. Gran bel pesce...
Lasciamo la barca ancorata in rada e in due gruppetti con il barchino d’appoggio e raggiungiamo il piccolo molo di legno di Rakeedhoo, dove siamo subito accolti da un gruppo di ragazzotti locali, chiaramente ma bonariamente compiaciuti del fatto che siamo solo quattro ragazzi con dodici ragazze al seguito. Chiedo retoricamente dove siano le loro ragazze, già sapendo la risposta, ma stavolta voglio proprio provare ad andare un po’ più a fondo con l’argomento. Mi dicono che le chiameranno per ascoltare la musica insieme a noi ed in effetti così sarà, anche se non proprio come mi sarei aspettato.
In attesa dell’esibizione faccio due passi per i vialetti bui. Non c’è un cane per strada. Nel senso, stavolta, che non c’è nessuno. Poi qualcosa si muove ad una trentina di metri da me e scorgo in lontananza qualche ragazza che passeggia, sono completamente coperte di nero tranne che per il volto. Un’abitudine diffusa nei villaggi, come potrò constatare ripetutamente, anche perché una recente legge maldiviana fa divieto a tutti i cittadini di circolare con un abbigliamento che nasconda l’identità dell’individuo, dunque volto scoperto. Forse un segnale di secolarizzazione, o forse un modo per la polizia di controllare meglio manifestanti scomodi. Comunque c’è anche in tanti altri paesi questa legge, ed anche da noi in Italia, retaggio degli anni di piombo, ma tutto sommato mi pare una legge giusta.
I ragazzi ci conducono verso alcune case e ci sistemiamo su tre lati di un’aula vuota di una scuola vicino al porto. Dopo poco arrivano i musicisti, una banda un po’ raccogliticcia ma simpatica di ragazzi di età diverse e qualche signore più attempato. Qualcuno ha un bel tamburo in mano ma la maggior parte di loro non ha strumenti, son vestiti come tutti i giorni, e si siedono lungo la parete dell’aula che noi abbiamo lasciato libera, sotto due finestre che danno su un cortile interno.
Nel quadro di queste finestre si notano i visi di alcune giovani donne, incappucciate di nero, che guardano dall’esterno cosa succede dentro l’aula. Una di loro tiene un neonato in braccio. Esco dall’aula, giro intorno all’isolato ed arrivo alla sala della festa da dietro, e posso così avvicinarmi alle ragazze che sono ancora alla finestra, a guardare divertite il pandemonio che succede dentro. Dopo qualche sguardo e qualche parola arriva un tizio, che se ne stava lì dietro nell’ombra, probabilmente un parente delle donne, che mi dice che è inutile parlarle perché tanto non parlano inglese. OK messaggio recepito... faccio qualche fotografia e me ne torno indietro. Forse mi sarei dovuto avvicinare accompagnato da una donna italiana, chissà, magari sarebbero state più a loro agio, o magari il torvo parente si sarebbe preoccupato di meno, ma non credo avrebbe fatto alcuna differenza.
Una decina dei ragazzi portano un bodu beru ciascuno e si sistemano davanti ai primi, cinque a destra e cinque a sinistra, in due file indiane contrapposte una di fronte all’altra. Appena tutti hanno preso posto, si scatenano le percussioni. Cominciano subito a suonare ritmi forsennati, accompagnandoli di canti e incitamenti. A turno, uno o due alla volta, i ragazzi senza strumenti si alzano in piedi e saltano verso il centro dell’aula cominciando danze vorticose, esuberanti, quasi esplosive. I nostri membri dell’equipaggio si uniscono presto ai locali. Dopo un po’ qualcuno di loro cerca di rompere il ghiaccio ed invitare le nostre ragazze a ballare...
TORNA A "LIBRI ONLINE"
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons
1998 - 2022 Marco Cavallini
ultimo aggiornamento 20/10/2021