Nel piccolo spiazzo antistante si succedono a due a due coppie di uomini che danzano il ballo della Jiambiya, mentre
all’esterno dalla folla continuano a sparare mortaretti. Finiti i festeggiamenti "di piazza", iniziano quelli privati nelle
rispettive case degli sposi, dove onoratamente presentati ai genitori e parenti prossimi degli stessi veniamo introdotti
nella stanza preparata con un sontuoso rinfresco imbandito al centro per terra. Gustate alcune specialità, in cui
primeggiano la carne di montone, il pollo, la salta, verdure speziate, riso e pane, veniamo introdotti presso il "mafraj",
una stanza della casa adibita a sala da fumo, con un’enorme "mada’a" (pipa ad acqua) per fumare il narghilè e per
masticare il qat. Il "qat party" è un rito sociale molto sentito dagli yemeniti, specialmente in occasione di simili
feste, dove la presenza di stranieri, come noi, rende quasi più dignitoso il festeggiamento del matrimonio. Il qat
è una droga leggera, ricavata dalla masticazione della "chata edulis", un arbusto coltivato ad altitudini comprese
tra i 1500 e i 2500 mt., che ha sostituito gradatamente nello Yemen la coltivazione del caffè. Esso è una droga
leggera, un blando stimolante, che gli yemeniti consumano in enorme quantità, nonostante la vendita della "rubta"
(piccola fascina di 6 o 10 ramoscelli di qat) che contiene foglie sufficienti a masticare per 3 o 4 ore, sia parecchio cara
ed il suo uso fa venire in mente l’analogo abuso della coca dei popoli andini. Il rito quotidiano della masticazione, più
che un rito, è l’essenza stessa di un’esistenza che altrimenti non avrebbe altre gratificazioni: in questa terra
poverissima il bisogno principale non è il cibo, ma la dose giornaliera di sogni, attraverso il qat.
Da nord a sud
attraversiamo paesaggi di incomparabile bellezza, ma spesso con trasferimenti in jeep lunghi.
Molti compagni così cadono volentieri tra le braccia di Morfeo, mentre altri più eruditi approfondiscono
la loro cultura: Emanuela infatti si cimenta spesso con la lettura dell’ardito "Virtus Loci" di Mario Neve, mentre Mario
legge "Il visconte dimezzato" di Calvino, emergendo ogni tanto dalla lettura per fare le fusa con la sua Donatella, per poi
dire all’autista accanto ."...Com’è
bella ... la mia patata!" Sarà questa la frase-tormentone di tutto il viaggio, bollando Donatella con l’appellativo di
"patata".
Ada ed Emanuela, confrontando le loro opinioni, riferiscono di avere gradito molto la visita
dei mercati di Bayt Al-Faqih e Suq Adh-Dhabab nella zona della Tihama.
Il mercato di Bayt Al-Faqih molto animato il venerdì presenta due zone distinte: una all’interno del villaggio con
commercianti di frutta, spezie, abbigliamento per locali, stoffe colorate e la curiosa presenza dei salassatori. Ognuno di
essi nella sua bottega cura un paziente aspirando, attraverso dei coni primitivi attaccati alla pelle, poche gocce di sangue
prodotte con una specie di raschietto che scalfisce l’epidermide senza traccia di sterilizzazione. La voglia di fotografarli
è tanta, ma ci limitiamo perchè rischiamo di essere presi a sassate.
Una seconda zona, fuori il villaggio, appositamente recintata ospita un coloratissimo e polveroso mercato di bestiame, dove
provengono animali da tutto la regione del Tihama: dromedari, pecore, capre e bovini vari.
L’altro mercato, quello di Suq Adh-Dhabab, nei pressi di Ta’izz, è ancora più vivace, visitandolo la domenica
lungo un wadi verdissimo in aperta campagna.
E' animato da numerosi mercanti di spezie, alimentari e prodotti locali, con un apposito spazio riservato al commercio degli
animali. Suq Adh-Dhabab è senz’altro il mercato più interessante e colorato per la numerosa presenza di donne
molto belle, dalla pelle più scura, vestite con abiti fantasiosi e vivaci e a viso scoperto, cosparso di polvere di
curcuma, per allontanare gli insetti e ripararsi dal sole.
Andrea e Laura raccontano di avere gradito molto anche Bir’Ali, una spiaggia bianchissima ai piedi dei promontorio di
Qana, dove abbiamo campeggiato due notti.
Da questo luogo abbiamo fatto una breve escursione a piedi all’omonimo vulcano spento, al cui interno uno stupendo lago verde
contrasta con la lava nera e l’azzurro dell’oceano indiano al suo orizzonte. Alla sua sommità, invece siamo rimasti
seduti in ascetica contemplazione a sinistra di questa vista e a destra della bianchissima spiaggia di Bir’Ali, bagnata dal
mare e prospiciente il promontorio di Qana. Amleticamente interrogatici su quale lato fosse più bello, non siamo stati
in grado di rispondere. Io ricordo anche la tormenta di sabbia che ci ha travolto subito dopo in spiaggia, insinuando in
ognuno di noi il dubbio se rimanere o partire subito. Dopo un'ora circa la tormenta cessa e un sole splendente ci riconcilia
con la natura del posto. E' proprio vero che tormento ed estasi spesso vanno di pari passo. Ci tuffiamo ripetutamente nelle
fresche acque del mare e godiamo quel magico luogo, facendo delle lunghe passeggiate alle baie che si succedono nei suoi
immediati dintorni. Acque colore turchese che contrastano con scogli affioranti verdi e neri. Granchi enormi che giocano a
rincorrersi. Paguri in cerca di nuove conchiglie dentro cui rinnovare la propria casa. Uno stormo di uccelli che, migrando,
oscura l’orizzonte. Gabbiani "Sule" che riposano incuranti della nostra presenza sulla battigia. Quel pezzo di paradiso
terrestre rimane ancora scolpito nei miei occhi. La sera, dopo un colorato tramonto tra sfumature di arancio e rosa, ci vede
raccolti a banchettare con ottimo ed abbondante pesce e solo una musica, proveniente dallo stereo della jeep ci riporta nel
21° secolo, sollecitando scatenate danze latino-americane, sotto lo sguardo divertito di altri turisti campeggiatori lì nei
pressi e alcuni curiosi locali.
Anita e Laura si scatenano, invitando i presenti. Ahmed, il nostro autista, è radioso per il successo della
festa. Quando Mario, che ha dichiarato spesso durante il viaggio di essere istruttore di danza latino-americana, viene
ripetutamente invitato a dare prova del suo talento insieme alla sua "patata", si alza e si muove verso l’area di ballo,
piovono applausi. Ma lui con un sorriso in bocca ed un bigliettino da visita in mano fa "Outing", affermando di non essere
istruttore di ballo, ma dottore commercialista con studio di consulenza a Padova. La sorpresa è tanta, ma la simpatia
per lui altrettanta e scrosciano ancora molti applausi.
Di notte sono piovuti quattro brevi, ma intensi scrosci d’acqua, nonostante l’aria fosse calda. Abbiamo dormito, chi
in tenda, chi sotto il telone steso tra le due jeep, chi in jeep, chi come gli autisti Ahmed ed Hussein sopra il tetto delle
stesse auto. La discrezione di Hussein, interrogato sul motivo per cui non si fosse riparato sotto il telone insieme a noi
quando era cominciato a piovere, è proverbiale perchè ha risposto: "Non volevo disturbare!".
La sveglia avviene prima dell’ora programmata: un branco di delfini decide di offrirci un ultimo stupendo ricordo di questo posto.
Hussein si avvicina per svegliarmi, dicendomi: "Capo ... ci sono delfini, Sabaah Il-Khayr (Buongiorno)".
Ci ritroviamo emozionati come bambini, passati immediatamente dal sonno alla vista eccezionale di uno spettacolo naturale,
sulla riva ad osservare, fotografare e battere le mani per richiamare l’attenzione dei delfini. Non sono ancora le Sei e quasi
in religioso silenzio ognuno si concede pochi minuti per un’ultima passeggiata individuale sulla riva di questo
paradisiaco luogo, mentre un’alba rosa fa capolino dietro la cresta dell’adiacente promontorio di Qana. Adesso siamo pronti
anche "dentro" per ripartire.
Anita e William ricordano infine il Wadi Daw’an nel Sud Yemen, piaciuto a loro particolarmente per la tipica ambientazione
"biblica" con verdi e rigogliosi palmeti e villaggi di case bianco calce, immersi nel frastagliato dedalo del wadi, il più
grande dell’Hadhramawt.
Sulla sua via d’arrivo, ricordo, discutevamo che per alcuni il viaggio era già finito, non aspettandosi di vedere nel
sud più nulla di interessante, dopo aver gradito molto il paesaggio e l’architettura del nord. Invece hanno tutti
cambiato opinione: penetrati nel primo villaggio del Wadi Daw’an, dove ogni casa imbiancata a calce presentava decorazioni
intorno alle finestre con motivi floreali dipinti con colori pastello di squisita fattura, sono rimasti incantati dalla
magica atmosfera di quel luogo "biblico".
Ogni terreno in pianura, strappato al deserto e reso fertile dall’acqua, viene coltivato a sorgo, miglio e "famia" (un
frutto simile al peperoncino), colture tipiche del luogo. Le donne, sempre di nero vestite, cui spetta il compito della loro
raccolta, anche sotto l’implacabile sole cocente, vanno tra i campi riparandosi con buffi cappelli da "strega", con la tesa
larga ed il cono alto di paglia intrecciati. Ad esse infatti sono demandati i compiti ed i lavori più umili: la raccolta
dell’acqua, coltivare i campi, governare le greggi. Le donne rigorosamente coperte dai veli sono le grandi vittime di un
rigorismo musulmano, che qui ha una delle sue principali roccaforti. Le norme del Corano sono considerate leggi naturali e
non vengono messe in discussione. Dicono i musulmani "Allah ha voluto gli uomini e le donne diversi tra loro come il Sole e
la Luna. Vivono nello stesso universo, ma non s’incontrano mai, anche se insieme sono capaci di generare la vita".
La vera emozionante sorpresa del Sud per tutti è Shibam, soprannominata la "Chicago del deserto" per via dei suoi
palazzi di fango alti fino a sette piani e salvaguardata anch’essa come Sana’a dall’Unesco. La città è splendida.
Ci accoglie all’ingresso una piazza, alla cui ombra anziani riuniti in circolo giocano col popolare passatempo del "domino".
Altri di loro stanno seduti all’ombra, osservando chi passa, con un ramoscello di "hod" tra i denti per pulirli e con la
"habua", una fascia di stoffa circolare chiusa che, cingendo i fianchi fino alle ginocchia piegate, permette di stare
comodamente seduti in equilibrio senza cercare appoggio alla schiena. Penetriamo all’interno della città attraverso
strette strade sabbiose, costeggiando alti casermoni, antesignani degli occidentali condomini, soffermandoci all’ombra dei
cortili per ripararci dal caldo opprimente. Tutte le abitazioni hanno una porta d’ingresso in legno riccamente decorata e
piccole finestre in legno intagliato da cui svolazzano tendine multicolorate. Particolarissimi di Shibam sono anche
finestrini ripetuti quasi all’infinito sulla facciata della casa, come tanti oblò di una nave, da cui escono fuori a
mala pena solo le teste di alcuni bambini, che attirati dal nostro passaggio ci gridano dall’alto: "Sadik Sura ... Sadik
Kalam ...Sadik mullajem - .... Amico foto ... amico penna ... amico caramella".
Non dimenticherò mai la vista di quei teneri volti questuanti che sembrano uscire dal muro di fango. Un
ricordo spiacevole viene menzionato solo per la curiosità del contesto: dopo l’attraversamento del deserto
dell’Hadhramawt e la sosta nella tenda beduina di Shabwa, passiamo per Marib, dove ci vengono affidati, nonostante la nostra
iniziale opposizione, tre militari in borghese ed armati, che siamo costretti ad ospitare all’interno delle nostre due jeep
fino a Sana’a. Avanzati di pochi km. l’autista Ahmed, avvertito uno strano rumore, si ferma e scende. I bulloni delle quattro
ruote della nostra jeep sono allentati. Con l’aiuto del secondo autista Hussein li stringe e sale in macchina riprendendo la
marcia, ma è sbiancato e stravolto in viso.
E' decisamente impaurito ed interrogato, farfuglia con voce sommessa: " ... Jalla ...Jalla (Andiamo ... Andiamo),
qui non buono ... arriviamo presto a Sana’a".
Poi il militare seduto accanto a lui gli riferisce parlando in arabo che quattro settimane prima in quel tratto c’era stato
un tentativo di sequestro. Col senno del poi comprendiamo tutte le precauzioni della polizia di Marib nell’affidarci i tre
militari in borghese direttamente in auto con noi, anche se in verità lo svitamento dei bulloni alle ruote sembrava
essere opera di ignoti ragazzini probabilmente a Marib, dove avevamo sostato per una pausa pranzo insieme ai nostri autisti.
Questi ricordi adesso ci fanno sorridere senza privarci tuttavia il piacere di essere stati in un luogo magico, sospeso
appunto "tra cielo e terra".
Il mio personale ricordo piacevole va comunque a quella mattina in cui, aspettando a Bir’
Ali la nostra quotidiana scorta, mi ero seduto con Ahmed al tavolo del ristorantino di fronte il posto di guardia militare.
Ahmed raccontando alcune sue gesta eroiche, riferisce di quando durante la guerra tra Yemen Nord e Sud, accompagnando un
gruppo di turisti ad Aden, era rimasto con essi prigioniero dentro la città trovando ricovero di fortuna presso
privati in mancanza di strutture ricettive ufficiali, per poi riuscire a scapparne furtivamente e giungere a Sana’a in salvo.
Un uomo, conoscente del gestore del ristorante, seduto di fronte a noi mi fissa continuamente, finchè sorridente,
attraverso la traduzione di Ahmed, mi dice che somiglio ad una attore di un serial TV yemenita, un certo Gawar Tobshi.
Rispondo anch’io con una risata fragorosa, dicendo che spesse volte mi avevano fatto notare la mia rassomiglianza con Gandhi,
ma questa con l’attore yemenita mi risultava nuova ed eppur gradita.
Ridiamo tutti, locali presenti compresi, bevendo tè come per festeggiare, finchè con gesto amicale l’uomo
avanza verso me sorridendo ancora e batte una mano sulla mia spalla.....
....Svegliatomi dal torpore in cui sono caduto, preda dei numerosi ed emozionanti ricordi, sento il mio amico di Palermo che,
battendomi nervosamente la mano sulla spalla, dice:
Ne avevo tempo ad aspettarti fuori dal bar, mentre tu eri seduto dentro! Ma perchè ridi? Che cos’hai? Dove eri?
Rispondo: "Yemen ma bein as’samaa wel ard (in Yemen tra cielo e terra)". Di rimando lui: "Sei strano! Cosa hai preso al bar?
Rispondo: "Una granita .... una granita al qat". Jalla ...jalla (andiamo ... andiamo)!
Insieme a Laura, Andrea, Mario, Donatella, Anita, William, Ada, Emanuela
e gli autisti Kaleb, Ahmed ed Hussein.
Ma’a S-salaama (Arrivederci)
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ultimo aggiornamento 19/10/2021