A sera, quando la luce diviene meno crudele, ci si ferma per fare campo e si ritrovano gli asini condotti dai colleghi di Barka. Noi piantiamo le nostre tende, mentre i Tuareg si sistemano in una nicchia nella roccia, al riparo dal vento, e accendono il fuoco: è l’ora del tè serale. La preparazione del tè è un rituale complesso: occorrono una teiera in terracotta, un barattolo di latta vuoto, un bicchiere grande riempito di zucchero, tre bicchierini da liquore. Le foglie di tè verde oppure, in mancanza di questo, di un’erba aromatica del deserto, sono poste nella teiera, in cui si versa poi l’acqua bollente fatta scaldare nel barattolo posto sulle braci ardenti. Si forma così una miscela estremamente densa e amara che andrà diluita e addolcita nelle fasi successive del rito. La diluizione avviene versando la miscela in bicchieri differenti e aggiungendo acqua in proporzioni diverse, secondo un procedimento ben preciso. La preparazione del tè è uno spettacolo affascinante. Il Tuareg preposto al rito è seduto per terra, con le gambe incrociate e la schiena diritta come un pianista, ed esegue le varie fasi con una precisione assoluta, versando il liquido da un recipiente all’altro da un’altezza incredibile e senza il minimo errore. L’ho visto versare direttamente il tè dalla teiera, tenuta all’estremità del braccio completamente sollevato, in un minuscolo bicchierino da liquore posto sul terreno, senza che una singola goccia cadesse sulla sabbia. A notte ormai fonda mi allontano dal fuoco del bivacco, isola di luce nel silenzio del Sahara, e mi arrampico su un piccolo tavolato roccioso, nero come il catrame. Il richiamo del deserto non ammette repliche.
Questa frase di Plutarco mi
è rimasta incrostata nell’incavo della memoria, chissà perché. Alzò gli occhi al
cielo, che era pieno di stelle. Ecco, il cielo di questa notte è lo stesso cielo di
Plutarco: pieno di stelle. Secondo una fede antichissima della valle del Nilo, le
stelle sono gli esseri umani delle generazioni passate che proseguono il loro
viaggio sotto altra forma. Mi trovo nel cuore del deserto occidentale, il luogo
misterioso verso il quale si incamminano i defunti secondo la religione
dell’antico Egitto. L’Occidente dove il Sole muore ogni sera, la porta del
mondo divino. Civiltà curiosa, quella egizia, in cui si viveva in funzione dell’al
di là. Immense risorse erano destinate alla morte, o meglio, alla vita dopo la
morte: intere città erano edificate per i morti, spesso con maggior cura delle cittè
per i vivi. Il dono più ambito dai sudditi dei Faraoni era costituito dai
materiali e dalle risorse necessarie ad erigere la tomba. Curiosa civiltà, la
nostra, in cui si vive solo in funzione dell’al di qua. Ci inventiamo ogni sorta di
attività, cui attribuiamo invariabilmente la massima importanza, per bandire il
pensiero della morte. Ma qui nel deserto è difficile ricordarsi del perché quella
certa attività ci sembrava tanto importante...
Giorni di marcia sull’altopiano: Sefar, In Itinen, Oum Itouami, Timenzouzine...
Giorni di magia, di libertà, di bivacchi sotto le stelle. Un ritorno alle cose
essenziali, come quando si era bambini.
Un giorno Barka ci chiama presso una nicchia scavata alla base di una parete
rocciosa. Quando siamo tutti riuniti intorno a lui, ci indica la parete rocciosa
con il suo bastone da viaggio: "regardez ici!", esclama nel suo francese
incerto. Sul momento, non vediamo nulla. "La vache" - indica un’area della
parete - "et le mouflon" - sposta la punta del bastone mezzo metro a destra.
Aguzziamo la vista. Nulla. Poi all’improvviso appare la forma inconfondibile di
una vacca appena più scura dello sfondo, e più oltre si riconosce il profilo di un
animale cornuto, probabilmente un muflone. Siamo sbalorditi. E' il nostro primo
contatto con le pitture rupestri del Tassili. Nei giorni successivi faremo
indigestione d’immagini, alcune incredibilmente nitide. Greggi, giraffe,
antilopi, cavalli, cammelli, scene di guerra e di vita nei villaggi, persino una
barca. A poco a poco, un mondo sepolto da millenni emerge sotto i nostri
occhi. A quale epoca si riferiscono queste pitture rupestri? E' difficile dirlo,
anche gli esperti sono divisi. E' certo comunque che le pitture non
rappresentano un periodo storico ben definito, ma piuttosto sono il risultato di
stratificazioni successive, che a volte si sovrappongono sulla stessa parete. Il
periodo più recente è detto "del cammello", perchè la presenza di questo
animale nelle scene dipinte testimonia che il clima del Sahara era già divenuto
desertico. Tornando indietro nel tempo, troviamo il periodo "del cavallo". Il
cavallo necessita di un clima più mite e di una flora più rigogliosa: il Sahara
stava cambiando, ma era ancora vivibile. Se passiamo ad epoche più remote,
certamente preistoriche, ecco apparire una fauna sbalorditiva testimone dello
stato edenico originario di questo luogo. Il Sahara era un immenso giardino,
popolato da ogni genere di animali e di piante. Probabilmente risalgono a
quest’epoca insondabile le figure inquietanti di esseri di forma umana ma con
caratteristiche soprannaturali: teste enormi, corna, attrezzi rituali. Chi erano?
Dèi dimenticati? Stregoni? Capi tribù? Sacerdoti?
Sempre più il Tassili onora la sua definizione di deserto. Deserto, infatti, non
significa luogo vuoto, bensì luogo abbandonato.
Quando a sera sostiamo nel luogo prescelto per il campo, dopo aver montato la
tenda, salgo a piedi nudi sulla roccia retrostante e mi siedo sulla cima, a circa
30 metri dal suolo. Da qui si gode una vista splendida del labirinto di pietra
circostante. Il sole è ancora caldo, ma già si annuncia il vento fresco serale.
Ancora la luce. Violenta, quasi feroce di giorno. Più dolce e soffusa la sera e
all’alba. Sempre chiara, tersa, netta. "Ti ho dato luminosità al
posto di aria e
acqua", dice il dio Atum. "E vedere il tuo volto?", chiede un po’ sconcertata
l’anima del defunto. "Sì: non permetterò che tu soffra privazioni".
Vedere il
volto di Dio. E' questo ciò che ci attende? L’illuminazione finale? Videmus nunc
per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem: adesso guardiamo
attraverso uno specchio, nell’oscurità, ma allora vedremo faccia a faccia.
Il deserto è una prefigurazione dell’eternità che ci attende.
Epilogo.
In questa tarda rielaborazione dei ricordi di viaggio in Algeria, che si svolse a cavallo fra il 2002 e il 2003, ho privilegiato la dimensione mistica del deserto, secondo uno schema che alterna descrizioni di viaggio a pensieri e sensazioni personali. Certo, un viaggio nel deserto non si riduce a questo: è fatto anche di canti intorno al fuoco, di marce sotto il sole, di corse sulle dune, di conversazioni con la popolazione locale, all’ombra di un albero rinsecchito o di una roccia, sorbendo lentamente il tè ospitale. Ma di questi aspetti parlerò un’altra volta.
Diego Ragazzi
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ultimo aggiornamento 19/10/2021