Il deserto è un luogo mistico, un luogo dello spirito prima ancora che uno
spazio geografico, penso mentre percorro la piana di sabbia dorata in direzione
di Djanet, nel sud algerino.
"Là vivrai in pace", risponde Atum all’anima appena giunta nell’al
di là.
"Io ti ho dato luminosità in cambio di acqua e aria".
La luce. Ecco cosa distingue il deserto da tutti gli altri luoghi della terra.
Osservo la muta distesa di sabbia punteggiata di isole di roccia bruna che
scorre dal finestrino della corriera sgangherata. La luce è tagliente come una
lama, l'aria trasparente e sottile come un cristallo. Questo conferisce al
deserto la sua profondità. Le cose appaiono nude nella luce, non c'è possibilità
di inganno. Se all'alba respiri l'aria fredda che ancora sa di notte, lo spirito si
espande oltre le pareti scalcinate del qui e dell'ora. Questo riversarsi
dell'anima verso l'esterno, questo dimenticarsi nella distesa della materia, è il
dono difficile del deserto.
Djanet è una mezzaluna verde infissa fra le rocce di queste solitudini assolate.
Ogni centimetro di terreno coltivabile è sfruttato e protetto da siepi, foglie di
palma rinsecchite dall’invadenza della sabbia. Le abitazioni sono costruite
all’esterno dell’oasi, nel deserto, per non rubare nemmeno un palmo di terra
fertile alla coltivazione. A Nord, si stende per oltre 1000 km il Grande Erg
Orientale, con le sue dune di sabbia infuocata. A Sud, altre centinaia di km di
pista desolata separano l’oasi dal fiume Niger. A Ovest si infrangono le onde di
sabbia dell’Erg Admer. A Est si erge l’altopiano roccioso del Tassili n’Ajjer ad
un’altitudine media di quasi 2000 metri: la nostra meta. Prima di partire, però,
dobbiamo risolvere alcuni problemi logistici: reperire gli asini per il trasporto
dei bagagli, riempire le grosse taniche di plastica verde con acqua potabile,
contrattare l’itinerario con la nostra guida, un giovane Tuareg di nome Barka.
Il giorno seguente, affrontiamo di buon mattino la salita verso l’altopiano del
Tassili. Seguiamo un ampio canalone dalle pareti scoscese, che infine si
restringe e si inerpica verso la sommità dell’altopiano. Dopo forse 4 ore di
marcia, superiamo l’ultima rampa e ci troviamo sull’altopiano. All’improvviso
lo spazio si apre, le mura di roccia lasciano il campo ad un piano allucinante,
perfettamente orizzontale, coperto di sassi neri e brillanti nel sole
pomeridiano. Alle nostre spalle il canjon da cui siamo saliti s’inabissa nella
terra. Davanti a noi si stende fino all’orizzonte la pianura nera, uniforme,
profonda, senza fine. Ci incamminiamo verso Est, in fila indiana, come un
rosario di fantasmi. Dopo ore di cammino, la mancanza quasi totale di punti di
riferimento genera la curiosa illusione di non essersi mai mossi dal punto di
partenza. Ad un giorno di marcia verso Est, oltre l’orizzonte, c’è la Libia, ci
spiega Barka. Sul tardo pomeriggio giungiamo ad una zona più varia, con rocce color
sabbia e arbusti spinosi. Ed ecco, quando meno te lo aspetti, quando la luce cambia
annunciando il crepuscolo e tu sei stanco e già pregusti il riposo e il fuoco
serale, ecco che il deserto di nuovo ti sbalordisce. Dopo ore di marcia in questo
paesaggio desolato, che non tradisce alcuna forma di vita se non qualche filo
d’erba ingiallito, dietro un angolo di roccia appare, gigante verde, un albero
maestoso e solitario. Siamo a Tamrit, e l’albero dal tronco contorto, bruciato
dal sole implacabile, è uno dei famosi cipressi millenari della zona, veri e
propri fossili viventi testimoni di un tempo in cui il clima del Sahara era più
mite e queste pianure erano verdi di vita. Quando piantiamo il campo sotto le
fronde secolari, le prime stelle scintillano nel cielo rosato: si prepara la mia
prima notte nel Sahara. In passato ho attraversato altre zone desertiche: in
California, in Giordania, nel Sinai, in Cappadocia. Ma nulla è paragonabile al
Sahara. Qui le notti sono di una profondità singolare, e il cielo è denso di stelle
come in nessun altro luogo.
Se ti allontani dal campo e ti inoltri nel buio, dopo pochi passi si spengono i
rumori dei tuoi compagni di viaggio: rimane solo il vento e il pulsare del cuore.
Allora ti riempie un'angoscia particolare. Il primo impulso è voltarsi indietro
immediatamente, per accertarsi che il campo, con il suo contenuto di esseri
umani, sia ancora là dove l'hai lasciato. Ma poi, se prosegui nella notte, ti
prende una sensazione speciale, che i francesi chiamano le baptême de la
solitude. E' una sensazione unica, che non ha nulla a che fare con la
malinconia, o con la paura. Non è una sensazione gradevole: ricorda una specie
di vertigine, seguita da un espandersi dello spirito che si dimentica dei suoi
limiti individuali, e proprio per questo non ammette l'esistenza di altri
individui. Forse solo in questi momenti si riesce a concepire, per un istante,
l'esistenza dello spirito che ci anima, che è qualcosa di diverso dalla coscienza,
con il suo carico di memoria, il suo carattere, i suoi desideri, insomma quello
cui ci si riferisce quando si dice io, ma è quella scintilla divina di cui parla
Platone e alcune tradizioni orientali, intelligenza universale e impersonale che,
prima di iniziare il ciclo delle incarnazioni, contempla l'ordine universale delle
cose. Esiste un solo spirito che, per mitigare la sua eterna solitudine, si è
frantumato in miliardi di coscienze come in un gioco di specchi? Il deserto è
sempre stato il luogo privilegiato di chi va in cerca di Dio.
Ci addentriamo in una singolare foresta di pietra, che il vento (e un tempo
l’acqua) si è divertito a modellare nelle forme più strane: torri cilindriche,
guglie sottili, schegge taglienti, terrazze sporgenti, cubi inclinati grandi come
palazzi, animali fantastici. Si tratta della regione di Sefar. Da lontano, al
viaggiatore che si avvicina, ricorda il profilo caratteristico di Manhattan: una
metropoli di pietra abbandonata. Si cammina per ore in questo labirinto
minerale, che riserva una sorpresa ad ogni angolo. Corridoi di pietra scavati da
antichi fiumi, stanze riempite di sabbia rossa, cunicoli oscuri, archi di trionfo.
Barka ci guida sicuro, camminando leggero sulle sue reebok quasi nuove. Non
l’ho mai visto bere durante la marcia. Barka è un Tuareg moderno: scarpe
sportive e zainetto reebok, e caratteristico velo sul volto. Un giorno ci mostra
un recinto di pietre alto forse 50 cm, che delimita un’area rettangolare di una
decina di metri per lato, addossato ad una parete di roccia sporgente: "questa
era la mia casa negli anni ‘70, dove sono cresciuto", spiega. "Qui",
prosegue
indicandoci un piccolo quadrato delimitato da un muretto di sassi, all’interno
del recinto più grande, "era la stanza da letto dei miei genitori".
Sorride al nostro stupore.
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1998 - 2024 Marco Cavallini
ultimo aggiornamento 19/10/2021