Ed ecco apparire le prime case di legno immerse nella vegetazione. Il "villaggio" in realtà si compone di poche abitazioni sparse, senza una piazza o una strada principale. I primi abitanti che incontriamo sono alcuni giovani che tagliano legna in uno spiazzo erboso. Appena ci vedono, si interrompono e ci guardano con stupore. Subito la notizia del nostro arrivo attira altri curiosi, donne con bambini legati alla schiena come piccoli zaini, anziani piegati dal lavoro nei campi. Zhang intavola una fitta discussione riguardo, credo, l’esistenza dei fantomatici Pang Yao. Pare aver trovato qualcosa, e ci invita a seguirlo in una abitazione privata. Saliamo al primo piano, dove troviamo un piccolo pianerottolo adibito a veranda da cui si entra nella casa vera e propria, costituita da un enorme stanzone suddiviso in vari reparti: cucina, stanze da letto, dispensa, "salotto". Ci accoglie quello che pare il capo famiglia, un uomo maturo sulla cinquantina. Ci invita a sederci e ci offre delle sigarette. Noi siamo piacevolmente sorpresi, in quanto è la prima volta che qualcuno ci offre qualcosa disinteressatamente. Il capo ci dice che sì, nel suo villaggio esistono ancora due vecchie che seguono i costumi tradizionali, e dà disposizioni perchè siano fatte venire. Nel frattempo si presenta. E' il signor Jin, e si può definire il capo del villaggio di Baishi, o meglio l’autorità più influente, in quanto al tempo di Mao era il segretario locale del Partito, il che significava la carica più importante. Anche se adesso il sistema amministrativo è cambiato, il signor Jin mantiene tuttavia la sua influenza. Ci spiega con un misto di stupore e orgoglio che noi siamo i primi stranieri a visitare il suo villaggio dal 1956, anno in cui pare sia venuta una delegazione di nord coreani. Si può ben dire che siamo i primi occidentali in assoluto, almeno nell’era moderna. Questo spiega la nostra sensazione particolare riguardo a questo luogo. La curiosità reciproca permette ben presto di allacciare stretti legami di simpatia a dispetto delle difficoltà linguistiche. Siamo circondati da un gruppetto di persone, familiari del signor Jin ma anche curiosi che fanno capolino dalla scala e ci osservano senza dire una parola. Intanto Mauro si occupa del nipotino del signor Jin, lo prende in braccio e lo coccola sotto gli occhi divertiti della giovane madre.
Ma ecco che arrivano le signore che abbiamo cercato per tutto questo tempo: sono due vecchie minute di 76 e 80 anni, anch’esse stupite e divertite che qualcuno, anzi che un occidentale, possa interessarsi a loro. Portano una sorta di logora tuta blu che ricorda la "divisa" del popolo ai tempi di Mao, ma hanno un panno bianco arrotolato sulla testa calva. Finalmente dei Pang Yao! La felicità di Marianna è guastata solo dal fatto che gli abiti non sono esattamente quelli che si aspettava. Zhang intuisce il leggero disappunto di Marianna e inizia un fitto scambio in cinese con le due vecchie, che paiono divertite ma anche intimidite, come un bambino cui si chieda di recitare la poesia di Natale davanti ad un pubblico adulto. Alla fine vince il desiderio di mostrarsi, e si mandano a cercare gli abiti tradizionali. Questi abiti, ci dicono, sono costituiti da molteplici strati di stoffa, e quanti più sono gli strati, tanto maggiore è il lustro e l’importanza di chi li indossa. Una delle due donne indosserà l’abito, aiutata dalla seconda e dal signor Jin. Si tratta di un’operazione faticosa, per la rigidità del vestito, che non è mai stato usato prima. Se non fosse per noi, quest’abito sarebbe stato custodito gelosamente e indossato solo nella tomba. Siamo stupiti e commossi da tanta gentilezza, e accettiamo che si proceda solo perchè non c’è alcuna forzatura, e le due vecchie signore, dopo una iniziale timidezza, si divertono come bimbi al centro dell’attenzione e sembrano felici dell’inatteso strappo alla regola venuto a sconvolgere allegramente i ritmi sonnolenti di questo piccolo villaggio nel cuore della Cina.
Completata la vestizione, la vecchia signora si dispone davanti all’obiettivo per una foto ricordo, in posa rigida e serissima come i nostri nonni di fronte a questa diavoleria moderna capace di tramandare il nostro aspetto nel tempo: che diamine, è un affare serio! Occorre assumere tutta la gravità del caso. Dopo naturalmente le foto ricordo si sprecano, perchè tutti vogliono farsi fotografare: signor Jin e famiglia, noi e il signor Jin, noi e basta, madre con bambino, Mauro con bambino, Marianna con vecchia, io con... con chi diavolo mi avranno immortalato? Spero niente di compromettente.
Finita l’orgia fotografica, ci domandiamo che fare. Infatti, data l’incertezza su che cosa avremmo trovato al villaggio, non abbiamo programmato nulla di preciso per la sera. Restare ancora e accettare lo spontaneo invito a pranzo del signor Jin? Oppure riprendere il viaggio per raggiungere un gruppo di villaggi Dong, che - ci assicura Zhang - vale davvero la pena di vedere? Io vorrei restare, prolungare ancora di qualche ora questo incontro magico, ma è tardi, abbiamo 8 villaggi Dong (che vorrà dire, Dong?) da visitare, siamo attesi ad una locanda sul fiume per la notte, abbiamo tante cose da fare e da vedere... alla fine l’inevitabile decisione è di partire e farci nuovamente inghiottire dal vortice di impegni scadenze programmi di cui è fatta la nostra vita e che ci portiamo dietro anche in vacanza. Ma resta una sorta di nostalgia indefinibile, come la foschia azzurrina che i primi raggi del sole dissolvono, l’idea di una vita completamente diversa e in armonia con le leggi della Natura, qualunque cosa questo voglia dire. Lo so, tutto questo non regge ad un’analisi razionale, la vita che tanto mi affascina è pur sempre dura, il lavoro nei campi piega la schiena, l’orizzonte del villaggio è angusto: niente libri, niente scambi culturali, niente viaggi. Eppure... eppure forse sto giudicando con i parametri della nostra civiltà occidentale. Del resto, non posso fare altro. Ma forse, in qualche modo misterioso che mi sfugge, i nostri due mondi non sono così diversi, e con tutta la nostra tecnica non scaviamo più in profondità di un contadino cinese che non si è mai mosso dal suo villaggio.
Salutiamo con un’ombra di tristezza il signor Jin e la sua famiglia e promettiamo di spedire le foto non appena possibile. Raggiungiamo la macchina e proseguiamo il nostro viaggio. La nostra meta è il villaggio, o meglio il gruppo di villaggi, di Cheng Yang.
Arriviamo al crepuscolo. La locanda che ci accoglierà per la notte è situata sulla riva del fiume, a pochi passi da un bellissimo ponte coperto, il "Wind and Rain Bridge". Si tratta di una costruzione in legno di epoca medievale, ma rifatta più volte, poggiante su piloni di pietra e coperta da un soffitto pure in legno con cinque padiglioni a triplice cornicione disposti ad intervalli regolari. La campagna intorno è già immersa nella dolce sera meridionale, e nulla sembra disturbare il tranquillo scorrere della vita contadina, cristallizzata nei secoli. Prendiamo possesso delle nostre stanze, e dopo una doccia lungamente attesa ci presentiamo al pianterreno per la cena. Qui facciamo conoscenza con una strana coppia di viaggiatori. Sono due francesi di Parigi, lei è una ragazza mora sui trent’anni, ha parenti italiani e parla bene la nostra lingua. Ha lavorato per qualche tempo presso una compagnia aerea, ma adesso fatica a trovare un’occupazione. Lui è più anziano, sulla cinquantina direi, e commercia in sementi. E' in viaggio di lavoro, ma si è preso una picola vacanza che vuole spendere qui, lontano dal trambusto e dalla vita frenetica parigina. Non si potrebbe trovare un posto migliore per rilassarsi, mi confida. Non mi è ben chiaro il rapporto che li lega, dato che non sembrano fare coppia fissa, ma sono sicuramente insieme. Passiamo la serata chiacchierando, quindi ci ritiriamo nelle nostre stanze per una dormita rigeneratrice.
Decimo giorno
Come mi accade spesso negli ultimi giorni, nonostante le poche ore di sonno mi sveglio perfettamente riposato e tranquillo. Quando ci si alza prima dell’alba e si viaggia fino a sera, il sonno arriva rapido e pesante, senza sogni, e basta un debole chiarore a provocare il risveglio.
Dopo una veloce colazione, usciamo a fare quattro passi nella risaie lungo il fiume, in attesa che si apra il mercato nel vicino gruppo di villaggi Dong. La valle è bellissima, chiusa da dolci colline che verdeggiano nella fresca aria del mattino. Lungo il fiume blu cupo, scavalcato dal magnifico ponte coperto, si stendono biondi campi di riso, che i contadini raccolgono con un piccolo falcetto, a piedi nudi e immersi nell’acqua fino al ginocchio.
Nel nostro vagabondare ho l’opportunità di osservare una delle ingegnose macchine idrauliche costruite per irrigare i campi. Si tratta di una ruota che raccoglie l’acqua dal fiume e la incanala in una condotta di bambù sospesa a 3 metri da suolo da pali di legno. Anche la ruota è interamente realizzata in bambù e legno, senza un solo atomo di metallo, fosse anche un chiodo. Osservo il meccanismo incuriosito: la ruota è provvista di pale, ossia semplici assi di legno, sul bordo esterno, su cui la corrente del fiume esercita una spinta non appena queste si immergono, facendo in tal modo girare la ruota stessa. Sul bordo esterno, fra una pala e l’altra, sono fissati piccoli recipienti cilindrici, formati dal fusto cavo delle canne e aperti ad una estremità. L’inclinazione dei cilindri è tale per cui quando il bordo della ruota si immerge nell’acqua sono rivolti verso l’alto e ne escono pieni. Man mano che salgono l’inclinazione si abbassa gradualmente, di modo che, giunti alla sommità, cominciano a versare il loro contenuto in un collettore di legno, da cui parte la condotta di bambù. Vuotato il carico, il ciclo si ripete. Credo di non aver mai visto niente del genere se non sui libri. Mi domando meravigliato chi, all’alba della storia, abbia potuto concepire un’idea così semplice e geniale. E mi accorgo di quanta strada abbiamo percorso da allora. Se è vero che molti sentimenti umani sono rimasti invariati nei secoli, è però indiscutibile che la capacità dell’uomo occidentale di trasformare la natura, e con essa se stesso, si è accresciuta in modo esponenziale nell’ultimo secolo, tanto che io, come molti altri, se abbandonato in un ambiente come questo, sebbene non particolarmente selvaggio, farei probabilmente in tempo a morire di fame prima di aver riscoperto tutte le tecniche usate da questi contadini, che ci appaiono così primitive. Eppure non sono passati millenni da quando anche in Europa si applicava questa tecnologia.
Ormai il mercato dovrebbe essere cominciato e quindi ci dirigiamo verso il villaggio per una stradina che serpeggia fra i campi coltivati. Lungo la strada, notiamo una porta semichiusa al pianterreno di una casa in legno, con tutti i segni di una qualche attività che si sta svolgendo all’interno. Naturalmente dobbiamo ficcare il naso anche qui dentro, mi sembra scontato. All’interno, in un ambiente miseramente illluminato, una decina di artigiani stanno lavorando le pietre preziose. Ci mostrano come le intagliano con rapidi e precisi colpi di uno strumento che somiglia a un cacciavite dalla punta particolarmente dura e affilata.
Dopo questa curiosa esperienza, ci immergiamo nell’atmosfera animata del mercato cinese, che si tiene lungo la via principale del villaggio. La merce in mostra viene ovviamente dal mondo contadino, si tratta di verdura, frutta, foglie di tabacco, carni, pesci allevati in piccoli stagni artificiali fra le risaie, strane spezie legate alla medicina tradizionale ancora molto praticata nelle campagne, animali vivi - polli, pulcini, maialini, oche - tenuti in piccole ceste di vimini. La gente guarda, contratta, pesa. Noi facciamo altrettanto, ma per il momento non acquistiamo niente. Quindi ci infiliamo in una viuzza laterale per dare un’occhiata al resto del villaggio. Marianna si ferma ben presto nella piazza principale dove alcuni vecchi stanno giocando a carte o a dama cinese seduti in una piccola veranda coperta. Marianna è attirata da queste figure e spera di poter scattare qualche bel ritratto. Io e Mauro non siamo molto convinti che questo atteggiamento sia proprio corretto, intendo il fatto di fotografare la gente senza chiederne il permesso, quasi si trattasse di un paesaggio o di un fenomeno da baraccone. E' vero che in generale i cinesi non fanno resistenza, ma in ogni caso penso sia poco rispettoso. Quindi lasciamo Marianna alle sue foto e ci allontaniamo per osservare la disposizione del villaggio e la struttura delle abitazioni. Come spesso in questa regione, le case riuniscono più usi nello stessa costruzione: stalle e legnaia al pianterreno, abitazione al primo piano, granaio (o meglio "risaio") in soffitta.
Dopo aver abbondantemente curiosato, passiamo in un secondo villaggio quasi attaccato al primo ma più tranquillo perchè qui non c’è mercato. Nella piazzetta principale alcuni contadini stendono i chicchi di riso su enormi teloni per farli seccare. Mentre Marianna e Mauro ascoltano Zhang illustrare le caratteristiche del posto, io mi siedo su un gradino e osservo il lavoro paziente degli abitanti. Accanto a me siede un signore anziano con un bambino piccolo in braccio, il quale mi guarda con aria assai preoccupata. Evidentemente non gli ispiro molta confidenza. Gli sorrido, ma non faccio altro che aumentare la sua preoccupazione. Decisamente, con i bambini piccoli non ci so fare.
Sulla strada del ritorno verso la nostra locanda, passiamo accanto ad una scuola, e naturalmente subiamo l’ennesima imboscata. Alcuni bambini ci osservano con curiosità e timore, incerti se correrci incontro per domandare qualche piccolo regalo o restarsene a prudente distanza. Mauro pensa bene di distribuire le ultime penne che gli restano, e infila una mano nello zaino per cercarle. Basta questo semplice gesto per acuire l’attenzione dei nostri piccoli amici, che cominciano a sospettare le nostre intenzioni, e quando non c’è più alcun dubbio non resta che rompere il ghiaccio. Ci pensa una ragazzina dall’aria sveglia che si avvicina prudentemente fino ad allungare il braccio di scatto, afferrare una penna e scappare a gambe levate con il piccolo trofeo. Mauro non reagisce, dunque vuole veramente distribuire regali: ottenuta questa certezza, viene prontamente circondato e assalito da uno sciame di bambini che si disperde solo ad esaurimento scorte.
Resta ancora un’oretta prima di ripartire per Guilin. Mauro e Marianna vogliono dedicarla all’acquisto di oggetti di artigianato (turistico) locale. A me non interessa e decido di tornare sul mercato per osservare ancora qualche scena gustosa. In effetti mi capita di osservare una inedita pesatura del maialino (vivo). Ogni cosa va pesata ponendola sul piattino di una piccola bilancia, per stabilirne il prezzo. I maialini non fanno eccezione. Ma come cavolo faranno a far entrare l’animale nel piattino? - mi domando mentre osservo i preparativi. In effetti, il maiale non entra nel piattino ma viene afferrato per una zampa posteriore e messo in un sacco. Quindi si appende il sacco ad un braccio della bilancia. Ovvio.
E' tempo di ripartire, il viaggio verso Guilin durerà non meno di 6 ore, e una volta arrivati vogliamo prendere immediatamente la corriera per Yangshuo. Questa incredibile ed inaspettata avventura volge al termine, e un altro orizzonte si apre sull’infinito universo cinese. Salutiamo i nostri amici francesi e ci mettiamo in viaggio.
Arriviamo a Guilin a sera e con l’aiuto del signor Zhang prenotiamo il prossimo volo interno Guilin-Shanghai che prenderemo fra 3 giorni, e ci imbarchiamo sulla corriera per Yangshuo. Il tragitto dura poco più di un’ora. Fuori è ormai buio, ma una splendida luna piena brilla nel cielo nero. Una giovane ragazza cinese cerca di comunicare con noi, ma riusciamo a scambiare solo poche frasi con l’aiuto di un vocabolarietto acquistato in un ristorante di Xian: si tratta di una pubblicazione dello stato, credo, pensata per i ristoratori e quindi piena zeppa di terminologia culinaria, ma poco utile per una conversazione generica.
Fuori un paesaggio fiabesco fa capolino dagli strappi della cortina di vegetazione ai lati della strada. Neri picchi contornati d’argento lunare si levano verso il cielo nelle forme più strane e fantastiche, dritti e solitari come spilli oppure frastagliati come onde di un mare in tempesta, ora plasmati in forme rotondeggianti ora frantumati in cocci taglienti da una forza sconosciuta. E' difficile non lasciarsi trasportare dal sogno guardando fuori dal vetro.
Arriviamo a Yangshuo verso le 10 di sera, e prendiamo immediatamente alloggio ad un albergo di fronte alla fermata della corriera. Le nostre camere sono ampie e ragionevolmente pulite, io e Mauro dividiamo una stanza da 5 letti, Marianna si deve accontentare di una stanza da 3. Il bagno in compenso è nel corridoio, e riunisce insieme due funzioni essenziali: doccia e water in uno sgabuzzino di 3 o 4 metri quadrati, senza alcuna divisione fra i due ambienti. Il distributore della doccia è quasi esattamente sopra la tazza: fantastico! Ma devo ammettere che non ho ancora visto all’opera tutta l’inventiva cinese in fatto di cessi.
Scendiamo in strada in cerca di qualcosa da mangiare, ed incredibilmente il bar sotto l’albergo è ancora aperto: decisamente, Yangshuo si annuncia diverso da ogni altro luogo visitato finora. Ci sediamo ad uno dei tavolini all’aperto. Altri giovani occidentali (israeliani, americani, olandesi, francesi...) ci fanno compagnia, e la serata passa in piacevoli conversazioni. Dopo tanto vagabondare fra gente così diversa da noi, è in un certo senso rilassante poter ritrovare qualche vecchia abitudine che normalmente diamo per scontata, come ad esempio uscire la sera, sedersi in un bar e ordinare da bere.
Diego Ragazzi
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ultimo aggiornamento 28/05/2022