Oggi faremo un lungo salto attraverso la Cina per raggiungere Guilin a sud. Ci vuole più di un’ora di volo interno, in treno non voglio neanche pensarci: qualcosa come 24 ore o giù di lì. Anche questo volo interno conferma la buona impressione che ho avuto delle compagnie aeree cinesi. L’aereo è nuovo e ben tenuto, l’atterraggio morbido. Lasciato l’aeroporto di Guilin, moderno e poco frequentato in questa stagione, ci rechiamo in città con lo shuttle della compagnia aerea. Il nostro piano è di prendere immediatamente la corriera per Yangshuo, ridente cittadina turistica sul fiume Li.
Ma non abbiamo fatto i conti col caso, che si presenta sotto forma di un occhialuto cinese dall’espressione furbetta che ci abborda alla stazione dei pullman di Guilin.
Gestisce una piccola agenzia turistica che organizza viaggi nei villaggi delle minoranze etniche della regione e ci propone un itinerario su misura per visitare il più possibile nel poco tempo a nostra disposizione. Il prezzo non è proprio "cinese": 600 Y al giorno, ma la proposta ha i suoi vantaggi. Si potrebbe sicuramente spendere meno andando in corriera, ma occorre capire quale corriera prendere e per dove, vedere se è possibile raggiungere alcuni villaggi con questo mezzo, e soprattutto conoscere la regione e sapere dove andare. Questo significa che avremmo bisogno di almeno una settimana mentre noi possiamo permetterci solo 3 giorni. Inoltre l’idea di poter finalmente comunicare con qualche cinese (il nostro amico parla un discreto inglese) ci solletica. Per farla breve, accettiamo.
Con l’aiuto del signor Zhang, la nostra guida, ci rechiamo a prenotare il secondo volo interno da Guilin a Shanghai, quindi andiamo a pranzo in un tipico ristorante di Guilin. "Tipico" significa che tutti i tipi di carne e di pesce nel menu sono disposti, ancora in vita, in bella mostra in piccole gabbie o acquari sul marciapiede davanti al ristorante. Ci sono serpenti, polli, carpe, anguille, ratti, tartarughe e qualche altro animale che non sono riuscito ad identificare.
Partiamo subito dopo pranzo con la macchina privata della nostra guida. La strada si inoltra in una valle racchiusa da dolci colline, ricoperte di una rigogliosa vegetazione subtropicale, fra cui spiccano i bambù e i banani. La strada in sè, almeno nel primo tratto, si rivela disastrosa, percorsa da vecchi camion fumosi, sconnessa, interrotta da lavori in corso senza alcuna segnalazione o transenna. Attraversiamo grigi paesi, il maggiore dei quali è Longshen, un agglomerato di blocchi di nudo cemento senza alcuna attrattiva, e ci allontaniamo sempre più dalla "civiltà". Da quante ore stiamo viaggiando? Forse 5. La strada è ormai poco più di un sentiero sterrato che si inerpica, tortuosa, su per il fianco di una collina. Anche l’architettura dei villaggi è andata lentamente cambiando, ed ora si intravedono costruzioni di legno, semplici ma molto più belle delle orribili scatole di cemento che abbiamo visto all’inizio. Finalmente giungiamo ad uno sbarramento: non si può proseguire oltre in macchina e bisogna incamminarsi a piedi. Chiediamo ad alcune donne del posto, in cambio di un piccolo compenso, di sorvegliare la macchina, in cui lasciamo i nostri bagagli per prendere solo lo stretto indispensabile ed avviarci lungo la strada sterrata che ben presto si trasforma in un sentiero. Benchè sia sera ormai, la temperatura è tiepida e l’aria umida.
Dopo forse una mezz’oretta di cammino si intravedono le prime abitazioni, ed eccoci finalmente arrivati al villaggio, Pin An, fatto di pittoresche case in legno arroccate sul fianco verde della collina e stradine strette e scure. La dolce atmosfera del crepuscolo crea un senso di pace, cui contribuisce l’assenza di traffico e le abitudini riservate degli abitanti. Niente bar, ristoranti, negozi, bancarelle, solo quiete abitazioni e uomini e donne che scivolano silenziosi lungo i sentieri, a volte portando sulle spalle la classica pertica con alle estremità appesi due enormi cesti o sacchi pieni di legna, verdura o foraggio.
Noi dormiremo ospiti in una casa privata. Anche se i turisti non sono molto numerosi, pure qualcuno arriva fin qui e naturalmente gli abitanti si sono organizzati. La signora che ci ospita chiede la bellezza di 20 Y (4.500 lire) a testa per dormire. Le nostre camere sono eccezionali: sono tutte in legno, con due letti singoli avvolti in pulite coperte colorate. La finestra, senza tende, dà sulla valle sottostante e la vista è magnifica. Mi sembra quasi di essere tornato bambino, e che questa sia la mia nuova cameretta. Il fatto di aver visto un enorme ragno marrone scivolare vellutato fra gli interstizi delle assi non mi turba particolarmente.
Prima che venga buio abbiamo tempo di fare un giro panoramico fino alla cima della retrostante collina, da dove possiamo ammirare le magnifiche terrazze di riso che gli abitanti del luogo hanno creato nel corso dei secoli, trasformando le colline intorno al villaggio in enormi scalinate, balenanti di luce riflessa dallo strato sottile di acqua che le ricopre, rosata al tramonto, più fresca e azzurrina all’alba. Questo luogo è una delle mete preferite dai fotografi professionisti - ci dice il signor Zhang - che arrivano a passare qui fino ad otto mesi per trovare le condizioni perfette di luce e di atmosfera e realizzare stupendi servizi fotografici per le agenzie di viaggio di tutto il mondo. Non stento a crederlo, perchè il panorama è veramente eccezionale, anche se, a causa dell’elevata umidità e delle piogge frequenti, è difficile trovare una giornata perfettamente limpida per scattare foto impeccabili.
Rientriamo dopo il tramonto per la cena. La padrona di casa cucinerà per noi una serie di piatti a base di verdure, riso e pollo sulla freschezza dei quali non c’è da dubitare: infatti vediamo il pollo entrare in cucina vivo e uscirne sotto forma di striscioline di carne saltate in padella e di una zuppiera di ottimo brodo allo zenzero. Prevalgono i cibi piccanti, e infatti abbiamo visto numerosi campi di peperoncino intorno al villaggio.
La cena è ottima, l’unico problema è ... il tavolo. Nei ristoranti di città, sebbene poco frequantati dai turisti, i tavoli sono all’occidentale, ovvero hanno un’altezza ragionevole. Ma qui il tavolo è alto 50 centimetri, e le "sedie" di conseguenza. Non si sa bene dove mettere le gambe e dopo 10 minuti queste ti si addormentano giocandoti poi simpatiche sorprese se ti alzi di scatto.
Dopo cena discuto del più e del meno con Zhang, che si rivela assai intraprendente. In origine burocrate del Partito Comunista, ha saputo afferrare al volo le possibilità offerte dalla liberalizzazione economica di Deng Xiaoping e dall’arrivo dei turisti stranieri, e ha messo in piedi una piccola agenzia che offre viaggi alla scoperta delle minoranze etniche della regione (Dong, Yao, Miao...). L’amico è di idee ultra-liberali in economia e politica, ad esempio si chiede come mai in Italia facciamo entrare tanti clandestini non qualificati: dovremmo far entrare solo manodopera qualificata, per aumentare il nostro livello di competitività. All’inizio sono tentato di spiegare la situazione politica italiana e alcuni principi dello stato sociale, ma ci rinuncio immediatamente. Del resto anche lui comincia a sperimentare cosa vuol dire libero mercato, dato che - mi confida - i guadagni si sono assottigliati negli ultimi anni a causa della concorrenza. Non vorrei essere nei suoi panni se qualcosa gli andasse storto, dato che in Cina non esiste una rete di sicurezza sociale come in Europa, nè le efficienti assicurazioni private degli USA.
Dopo qualche tempo lascio campo libero a Marianna, che è al settimo cielo perchè finalmente "abbiamo un contatto con la genuina popolazione cinese" io e Mauro cerchiamo di ribattere che anche gli abitanti delle città, con tanto di McDonald’s e coca-cola, sono "genuini" come gli altri, ma non c’` verso e che letteralmente sommerge il signor Zhang di domande di ogni genere sugli usi e costumi delle minoranze locali. Del resto, sarà proprio questa curiosità di Marianna a propiziare uno degli incontri più toccanti del viaggio.
Esco e mi siedo sulla soglia, chiudendo la luce e il brusio alle mie spalle. Fuori l’aria è piacevolmente fresca e leggera, e la notte insolitamente profonda. La persistente nebbia luminosa che avvolge le nostre città di notte non ci consente di coglierne gli abissi, ma qui solo poche tenui luci, sparse nelle case nere, fanno concorrenza alle stelle, incredibilmente nette e brillanti.
Mi arrotolo una sigaretta e osservo il nastro di fumo azzurrino svolgersi e velare le stelle dell’Orsa. Aspiro con lentezza l’aroma del tabacco, immerso nella monotona litania dei grilli. E ricordi che non so dimenticare affiorano dal pozzo della memoria.
Nono giorno
Mi sveglio alle prime luci, piacevolmente tranquillo e riposato. Dopo una veloce colazione a base di spaghetti in brodo (noodles), usciamo per gustarci meglio il panorama e scattare qualche foto. Ci incamminiamo lungo i sentieri che costeggiano la collina, usati dai locali per andare a lavorare nei campi. Benchè il sole non si veda ancora, i contadini sono già al lavoro, a mani nude come ovunque, ma qui con la difficoltà aggiuntiva della disposizione assolutamente particolare dei campi. La maggior parte del terreno è coltivato a riso, e una ingegnosa rete di irrigazione è stata messa in opera per trasportare la preziosa acqua in ogni terrazza. Niente tubi in metallo, nè pompe idrauliche, solo canali in pietra e condotte realizzate con fusti di bambù. L’energia che fa girare tutto il delicato meccanismo è la forza di gravità. Dato che le terrazze appartengono a famiglie diverse, occorre ripartire equamente l’acqua di irrigazione, per esempio dividendo impeccabilmente il flusso di un canale in due flussi di uguale portata mediante una pietra posata nel mezzo.
Oltre al riso, particolarmente pregiata è la qualità locale di peperoncino.
Al termine di un ampio giro panoramico, ridiscendiamo verso il villaggio e ci inoltriamo nelle stradine strette e ombrose. Ovunque segni della semplice vita contadina, ogni casa possiede un’aia dove stendere il riso ad asciugare e un magazzino dove riporlo. Spesso gli animali, come maiali e bufali d’acqua, sono tenuti in piccole stalle al pianterreno. A volte incontriamo bambini con una inequivocabile cartella sulle spalle: a quanto pare c’è una scuola anche quassù. E infatti la troviamo, ma adesso non c’è lezione e i bambini sono nel cortile e giocano a pallacanestro. Entriamo in una delle aule, un semplice stanzone in legno, con banchi singoli e lavagna anch’essa in legno. Mauro ha portato del materiale di cancelleria che vorrebbe donare al maestro, ma non lo troviamo e quindi si accontenta di distribuire qualche penna agli alunni.
Dopo qualche ora di peregrinazioni, ci concediamo una meritata pausa in una locanda. La padrona ci accoglie a braccia aperte e, oltre alla birra, ci ammannisce le vicende recenti del villaggio. Ancora non si è spenta l’eco del matrimonio celebrato proprio quassù fra un americano e una canadese che, a quanto pare, si sono conosciuti in questo meraviglioso luogo e hanno deciso di ritornare per sposarsi. Tutta orgogliosa, ci mostra alcune foto dell’evento apparse sulla stampa locale.
Nel frattempo Marianna, che non ha smesso un secondo di importunare la guida sulle usanze del posto, vuole assolutamente vedere alcuni dei vestiti tradizionali di cui veniamo a conoscenza. Infatti anche se Pin An non è un villaggio turistico in senso stretto, pure le usanze e gli abiti tradizionali non fanno più parte della vita quotidiana e vengono rispolverati solo per gli stranieri, a pagamento s’intende. Non so perchè, ma la sua curiosità si focalizza sui Pang Yao, una minoranza nella minoranza Yao, le cui donne tradizionalmente si rasano i capelli e portano una specie di turbante bianco quando vanno spose. Dopo lunghi interrogatori della gente locale, veniamo a sapere che, forse, esiste ancora un villaggio poco lontano dalla strada principale che corre lungo la valle dove alcune vecchie donne hanno mantenuto questa usanza. Per essere certi di trovare quello che cerchiamo, tuttavia, bisognerebbe raggiungere un altro villaggio molto più lontano nelle montagne, a circa 4 ore di cammino dal primo. Le informazioni su questo secondo villaggio tuttavia scarseggiano. In particolare, non si riesce a capire se sia possibile dormirci. Non siamo attrezzati per questo tipo di viaggio, e francamente farsi 4 ore di cammino all’andata e 4 al ritorno per restare solo pochi istanti (le giornate sono molto corte e non è consigliabile farsi cogliere dalle tenebre nelle montagne) non è una prospettiva molto invitante. Quindi decidiamo a malincuore di fermarci al primo villaggio e sperare di trovare qualcosa di interessante.
Recuperiamo la nostra macchina e ci mettiamo in viaggio. Occorre innanzi tutto ridiscendere sulla strada principale in fondo alla valle e da questa prendere una deviazione all’altezza di Hei Pin verso l’altro lato della valle.
La "deviazione" è una stradina sterrata a malapena percorribile in auto. Anzi, fatti alcuni chilometri si rivela non percorribile del tutto. Lasciamo quindi la macchina presso alcune case, e ci incamminiamo a piedi lungo una valle laterale dolcissima e verdeggiante, segnata da un chiaro torrente nel mezzo. Qualcosa nell’aria o nel contegno dei pochi abitanti che incrociamo mi sussurra che questo luogo è diverso da tutti quelli che abbiamo visto finora. Non so spiegare bene, ma lo so come si sanno le cose nei sogni. Ci guardano con curiosità, ma è una curiosità di una specie diversa da quella cui ormai siamo abituati. Nessuno si avvicina per venderci qualcosa o per offrirci dei servizi.
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1998 - 2023 Marco Cavallini
ultimo aggiornamento 28/05/2022