H O M E P A G E

InterRail 2008

Norvegia - Svezia - Finlandia

Tappa per tappa:
28/07 Milano - Londra (Aereo) / Londra - Oslo (Aereo)
30/07 Oslo - Stavanger (Treno)
31/07 Stavanger - Tau - Preikestolen (Traghetto - Bus)
01/07 Stavanger - Bergen (Bus)
03/08 Bergen - Myrdal (Treno) / Myrdal - Flam (Treno) / Flam - Bergen (Traghetto)
04/08 Bergen - Oslo (Treno) / Oslo - Trondheim (Treno)
05/08 Trondheim - Bodø (Treno)
06/08 Bodø - Moskenes (Traghetto) / Moskenes - Å (Bus)
07/08 Å - Reine - Hamnoy - Å (Bicicletta)
08/08 Å - Svolvær (Bus) / Svolvær - Kabelvåg (Bus) / Kabelvåg - Svolvær (Bus)
09/08 Svolvær - Skrova (Traghetto) / Skrova - Svolvær (Traghetto)
10/08 Svolvær - Narvik (Bus) / Narvik - Luleå (Treno)
11/08 Luleå - Haparanda/Tornio (Bus) / Tornio - Kemi (Bus) / Kemi - Kuopio (Treno)
13/08 Kuopio - Helsinki (Treno)
15/08 Helsinki - Stoccolma (Traghetto)
19/08 Stoccolma - Arlanda (Treno) / Arlanda - Vienna (Aereo) / Vienna - Milano (Aereo)

Un sogno a lungo atteso
Il Grande Nord è terra di leggende: vi si narrano a proposito storie mirabolanti di battaglie vichinghe combattute al largo delle coste e sulle spiagge degli sventurati popoli razziati e decimati, di mostruosi kraken marini così grandi da essere scambiati per isole dagli sventurati marinai e pronti a tirare sott'acqua qualsiasi nave con la forza dei loro devastanti tentacoli, di inverni lunghi tre volte il normale che presagiscono al Ragnarök, l'ultima battaglia degli Dei che porrà la parola fine a questo mondo dopo un'epica lotta in cui tutti si uccideranno per poi ricostruire il mondo intero dal principio. Il sole alla mezzanotte non tramonta mai, risalendo beffardo prima di toccare l'acqua e illuminando costantemente le rocce che si tuffano vertiginosamente in mare senza alcun preavviso, scavate nei millenni dall'acqua lentamente sciolta negli enormi e maestosi ghiacciai montani. Oppure cambia idea e per molti mesi non si mostra, preferendo mandare solo qualche flebile raggio di luce come messaggero. Queste antiche leggende non hanno mai smesso di affascinarmi profondamente fin da quando non raggiungevo il metro di altezza, facendo sorgere in me il germe dell'amore per queste lande, nato molti anni orsono e mai sopito, fino a quando non ho avuto la reale possibilità di vedere con i miei occhi e calpestare con le mie scarpe queste terre così misteriose. Ognuno sa in cuor suo quali sono i suoi sogni ed è tenuto a custodirli gelosamente finché il destino, a volte beffardo e crudele ma altre così benevolo da concederci dei regali indimenticabili, dia la possibilità di realizzarli, andando ad arricchire il nostro spirito in maniera incalcolabile. La trasformazione interna opera in ogni viaggio che sia affrontato col cuore e con lo spirito giusto. Questo è ciò che di meraviglioso ogni viaggio cela: non è solamente una carrellata di nuove terre che appaiono una dopo l'altra davanti agli occhi, immagazzinandosi sterilmente nella memoria, ma un momento in cui si ha la possibilità di plasmare la propria anima, non permettendole di diventare un insensibile pezzo di legno di fronte a ciò che le appare davanti, e costringendola a cambiare. Il cambiamento è vita, l'animale che non si evolve si estingue. Solo in due, armati unicamente di carta geografica e guida turistica, coraggio e speranze, nonchè di biglietto Interrail che permette di usufruire quasi liberamente delle linee ferroviarie ovunque in tutta Europa. Il Grande Nord aspetta impaziente, e non ha più tempo. L'occasione è da prendere al volo, o l'ultimo treno partirà senza di noi.

Ansia
Siamo seduti in una delle tante aree di sosta per i passeggeri del ben conosciuto e affollato aeroporto della Malpensa, in paziente attesa del primo dei due aerei che ci porteranno fino alla capitale norvegese. Fuori dalle ampie finestre possiamo scorgere le centinaia, forse migliaia di automobili lasciate poco fa dai viaggiatori, che come noi stanno trascinando i loro bagagli su dei pratici carrellini a rotelle, mettendoli uno a uno sul nastro trasportatore che li inghiotte inesorabilmente dietro le bande pendenti di plastica flessibile per portarli nei posti più disparati. Mi sento legato a loro da un invisibile ma potente filo conduttore: tutti stiamo lasciando la sicurezza della vita ordinaria per metterci in qualche modo in gioco, scegliendo ognuno la propria sfida personale, da vincere per tornare a casa con un po' più di tesori nel cuore e nella mente di quanti ne avessimo prima di partire. Mi diverto ad osservare le persone che mi passano davanti senza sosta come formiche, cercando di immaginare cosa celino in quel bagaglio così ingombrante che non passa da qualsiasi check - in ordinario e deve essere incanalato nel trasporto apposito, o in quella borsa così piccola che sembra poter contenere al massimo i vestiti per due giorni, e magari serve per un viaggio di una settimana o più. Chissà se anche gli altri si chiedono ciò guardando noi, ormai muniti solo di zainetto e seduti uno a fianco all'altro con le fattezze simili al punto da essere frequentemente scambiati per fratelli gemelli.
Nonostante le diverse ore di attesa che abbiamo ancora davanti, non ho voglia di mettermi a passeggiare per i saloni dell'aeroporto. Preferisco rimanere stravaccato sulla poltroncina aspettando che il luogo mi fornisca qualche stimolo per alzarmi, ma a parte il febbrile movimento dei passeggeri a venire c'è ben poco che possa risvegliare la mia ancora incredula coscienza. Per scaramanzia non voglio immaginarmi nulla della mia destinazione. Le domande che mi frullano in testa su ciò che troverò una volta arrivato e soprattutto su come ce la caveremo vengono temporaneamente accantonate, lasciando spazio ad una marcata ansia che mi prende ogni volta che devo salire su uno di questi mezzi volanti. Una tensione generale che decido di curare solo con le mie forze, calmandomi poco a poco da solo, senza affidarmi a pericolosi sedativi che non si sa mai quali strani effetti possano sortire. Va a momenti: per qualche minuto credo di essermi calmato definitivamente, per poi sentire all'improvviso una lieve fitta all'epigastrio che mi ricorda inesorabile che sono ancora a terra e che la trasvolata non è ancora cominciata. In questi momenti di attesa mi chiedo se il viaggio che sto per intraprendere non possa essere l'ultimo della mia vita: non essendo mai stato in procinto di allontanarmi da casa per così tanto tempo, senza tutto ciò a cui sono abituato, avverto una sensazione inspiegabile, come di qualcosa di conclusivo. Difficile capirne i motivi: non si tratta di un pericolo fisico o dovuto alle persone che incontrerò, e nemmeno quello dovuto a un disastro aereo: è completamente differente, posso capirlo solo io. Tutto ciò non fa che aumentare le fitte allo stomaco e i pensieri negativi che stanno lottando contro quelli positivi per avere il sopravvento, ma presto mi convinco che non sto intraprendendo un viaggio di non ritorno, bensì esattamente il contrario! Questo pensiero mi fa subito sentire molto meglio e smetto per un po' di preoccuparmi.
Qualche ora dopo siamo già in volo a svariate migliaia di metri di altitudine, vedendo piano piano la città di Milano divenire sempre più piccola fino a diventare quasi indistinguibile dal paesaggio. La visuale esterna è annebbiata ad intermittenza mentre l'aereo attraversa numerosi banchi di minutissime goccioline sospese. Nel momento del passaggio oltre le nuvole, lampi di condensa lattiginosa saettano velocissimi scomparendo dopo pochi centesimi di secondo, fino ad arrivare nuovamente nell'aria pura dove la visuale si riapre, stavolta con un pavimento di nuvole e non di terra. Ora mi rendo conto, forse per la prima volta, che la situazione in cui mi trovo è definitivamente irreversibile: qualsiasi ripensamento, dubbio o pentimento ormai non ha più senso, viene inghiottito dal veloce sfrecciare dell'aereo che mi porta sempre più lontano da casa alla velocità di quasi ottocento chilometri orari, cancellando ogni barlume di attaccamento alla patria e al sicuro e riparato ambiente casalingo. La gioia spazza via l'inquietudine e la paura: mi sento in una botte di ferro, nonostante non sia ancora arrivato a terra. Dopo gli innumerevoli campi coltivati francesi, sorvoliamo lo splendido stretto della Manica, in direzione di Londra per lo scalo intermedio a Heathrow. Siamo partiti da nemmeno un'ora e già si vedono i primi frutti da collezionare. Chissà quanti altri ne seguiranno.

Heathrow
L'enorme aeroporto londinese è affollatissimo, colorato ovunque da pannelli luminosi di un giallo sgargiante e riempito in ogni angolo disponibile da boutiques e negozi di ogni genere. La scena di poche ore fa si ripete, ma con qualche lieve differenza: la tensione che mi attanagliava le viscere ora è completamente svanita, mi sento già arrivato a destinazione e quasi non penso al secondo aereo che prenderò di lì a non molto. Se sono sopravvissuto al primo, non potrà succedere più nulla di male. Pigramente seduti su una panchina di legno inganniamo il tempo osservando un padre che rincorre lentamente il figlioletto di pochi anni che si nasconde continuamente dietro le colonne, ingenuamente convinto di non esser visto. Paiono proprio divertirsi: non si curano di nulla di quello che hanno di fianco, nè di noi che li fissiamo, nè delle donne delle pulizie che svuotano i cestini pieni fino all'orlo a due passi da loro, nè degli altri passeggeri che a volte devono scansarsi leggermente per non essere investiti dal vivace marmocchio, nè degli avvisi all'altoparlante che annunciano l'ultima chiamata per imbarcarsi su un dato volo. Sto cominciando a ciondolare di lato con la testa, la lunga attesa mista alla monotonia dell'atmosfera di aeroporto mi sta leggermente snervando, mi distraggo nuovamente ascoltando un po' di musica quando padre e figlio se ne vanno dai dintorni delle colonne lasciandoli vuoti. Le rabbiose ed intense melodie di chitarra e basso che scaturiscono dagli auricolari accelerano notevolmente il trascorrere del tempo, fino a quando appare finalmente sul tabellone il numero del nostro terminale, a lungo scommesso tra noi. Presto siamo nuovamente allacciati strettamente alle poltrone con il sibilo delle potenti turbine che si fa sempre più forte, accelerando vertiginosamente e librandoci ancora una volta nell'aria per raggiungere finalmente la tanto agognata Norvegia. Le utili televisioncine di bordo tengono traccia della posizione dell' aereo minuto per minuto, con tanto di striscia colorata che si allunga progressivamente. Ci pensano dei fantastici tramezzini farciti di ogni leccornia a condire il tutto nel migliore dei modi.
Presto sono visibili i primi accenni della notoriamente frastagliata costa nordica: sembra che qualcuno si sia divertito a sbriciolare un'enorme torta di terra, lasciando i rimasugli sul bordo a formare una cortina che avvolge la costa ancora rimasta intera. Tante, tantissime isolette, alcune minuscole altre più estese, che non lasciano nemmeno un pezzettino di litorale diritto e regolare. Osservarle è un piacere, mentre l'aereo scende al ritmo di dieci metri al secondo definendo sempre più i particolari alla nostra vista. Intravedendo i primi sprazzi di città, la curiosità sale: ora è tempo di farmi la domanda che a Malpensa avevo temporaneamente accantonato. Come si presenterà Oslo ai miei occhi? Sarà una meraviglia di architettura nordica da lasciare senza fiato, od un'ordinaria città senza arte nè parte?

Lufthavn
Le sorprese ad Oslo non mancano, a cominciare dall'aeroporto: la prima cosa che ci colpisce è un interminabile corridoio di legno, preso nella morsa di un calore asfissiante dovuto alla mancanza di ricambio d'aria e al sole che trafigge i vetri da parecchie ore, implacabile. Nelle poche centinaia di metri che ci separano dall'ambiente climatizzato cominciamo già a sudare abbondantemente sotto le nostre felpe pesanti, impreparati a questo sbalzo termico così severo. È dalla tarda mattinata che non possiamo uscire a respirare l'aria fresca dell'esterno: fortunatamente nel locale check - out il climatizzatore funziona e smettiamo di fondere sotto i vestiti. Gli imprevisti non sono però finiti: proprio davanti a noi nella fila c'è una numerosa famiglia di colore, probabilmente proveniente dall'Africa nera, i cui componenti devono essere chiamati tutti per nome, con conseguente grossa perdita di tempo. Alla fine il controllore di aeroporto scoppia a ridere insieme a tutta la famiglia, per quella situazione così imbarazzante. Quando la conta degli impronunciabili nomi finisce e l'ultimo corridoio è finalmente terminato, possiamo uscire: dopo ore e ore costretti al chiuso respiriamo a pieni polmoni la fresca aria esterna per ossigenarci il sangue a dovere, subito prima di iniziare a correre per prendere il primo treno appositamente istituito per fare spola dall'aeroporto fino alla città. Tra pochissimo percorrerà i quarantasette chilometri che separano i due, e non abbiamo nessuna intenzione di perdere subito il primo treno, avendo programmato un percorso composto in gran parte da spostamenti su binari. Sarebbe scoraggiante cominciare male. Per fortuna saliamo a bordo poco prima che parta, e ciò lascia ben presagire per il futuro di tutta la vacanza: si sa che chi ben comincia è a metà dell'opera.

Oslo
Da una prima occhiata veloce al mezzo in cui ci troviamo, ci accorgiamo subito di trovarci in un paese molto avanzato tecnologicamente e socialmente: la carrozza è spaziosa, i vetri e i sedili sono perfettamente puliti, le indicazioni molto chiare: ogni fermata è segnalata sia a voce che a video in più lingue, scorrono informazioni supplementari, non c'è possibilità di sbagliare nemmeno volendo. Faticosamente incastrati i nostri ingombranti bagagli tra i sedili quasi tutti vuoti, riprendiamo fiato e possiamo rilassarci godendoci dal finestrino il primo accenno dell'inconfondibile panorama norvegese. Ciò che vediamo sono campi brulli e sterminati, qualche rara casetta rossa sperduta in cima a una collinetta, mandrie di mucche che pascolano liberamente, con il sole che accenna appena un tramonto sull'orizzonte. Un primo momento di rilassata curiosità e di contatto con la natura locale che ci ristora un po' dalla stancante trasvolata e ci mette di ottimo umore. Osservo curiosamente tutto ciò che mi appare dal finestrino: voglio assimilare fin da subito il più possibile della Norvegia, stampandomi in mente le prime decisive immagini che saranno quelle che ricorderò in modo particolare quando tornerò a casa: ciò che si vede e si fa per la prima volta ha un sapore speciale ed irripetibile. La stazione centrale in cui arriviamo poco dopo ha un ottimo aspetto, con degli enormi tabelloni infissi a diversi metri di altezza che segnano decine di partenze con tutte le informazioni in perfetta vista. Non c'è una carta per terra nemmeno a pagarla e tutto sembra organizzato con razionalità e senso pratico. Non abbiamo molto tempo per raggiungere il nostro ostello, situato a qualche chilometro dalla stazione, ovviamente da percorrere a piedi con tutto il bagaglio sulle spalle. Il mio compagno Davide, col suo ottimo senso di orientamento e una capacità straordinaria di lettura veloce delle cartine e delle guide turistiche, trova subito il nostro percorso. Così ci incamminiamo per le vie del centro, voltando lo sguardo qua e là in preda alla prima montante curiosità. La prima impressione è contrastante: Oslo non pare molto diversa da una normale capitale europea. Sono poche le costruzioni di fattura nordica chiaramente riconoscibile, la maggior parte degli edifici è squadrata ed ordinaria. Lavori in corso ovunque, con buche aperte e montagne di ghiaia, rendono un po' difficoltoso percorrere le stradine, costringendoci spesso a noiose deviazioni. Un tale più morto che vivo è finito dentro un cassonetto e la polizia sta cercando di tirarlo fuori con vani tentativi, fermandosi spesso per valutare le sue condizioni psicofisiche. Intersecando spesso le vuote rotaie dei tram prendiamo l'ultimo vialone in fondo al quale sta il nostro primo alloggio.
Il dormitorio si rivela abbastanza spartano ma tutto sommato accogliente. I nostri compagni di stanza sono tre uomini che viaggiano indipendenti come noi, il più giovane dei quali ha circa trent'anni: sono un cipriota, un indiano e un altro di nazionalità a noi sconosciuta ma probabilmente tedesca, visti i capelli biondi e l'abitudine di bere birra a colazione. Il cipriota, capelli molto corti ed espressione curiosa, si rivela subito molto cordiale e loquace con noi, da cui iniziamo a raccontarci un po' le nostre aspettative di viaggio, cosa faremo domani, dove andremo dopodomani e così via, scoprendo molte analogie tra il suo programma di viaggio e il nostro. Del resto, i posti da visitare in Norvegia sono sempre gli stessi: non è uno stato così grande da permettere decine di itinerari, anche se in proporzione possiede veramente tanti siti turistici di grande interesse. Ci sistemiamo alla bell'e meglio, affittando le lenzuola per non dover dormire su materassi di gommapiuma totalmente antitraspiranti e decisamente poco igienici, visto l'inevitabile strato di sozzura che li copre. Appena ricevute e profumatamente pagate, tentiamo di infilare il materasso nel copriletto a tasca, con delle manovre tragicomiche che divertono non poco l'amico cipriota, intervenuto più volte per darci consigli su come operare. Dopo svariati minuti abbiamo successo e possiamo incastrare i materassi nei letti di legno per non smuoverli più. Ormai sono quasi le undici di sera: grande la sorpresa nel leggere il quadrante dell'orologio, è ancora chiaro come di giorno! Le alte latitudini a cui ci troviamo fanno sì che d'estate il sole tardi a scomparire sotto l'orizzonte, un fenomeno davvero curioso ed inusuale. Nelle parti più settentrionali avviene il fenomeno delle "notti bianche", che è una sorta di sole di mezzanotte incompleto: il sole tramonta, ma la luce che rimane fa sembrare la notte molto simile al giorno. Avremo modo di vederne delle belle prossimamente! Esaurite le forze residue, ci infiliamo sotto le già spiegazzate lenzuola, per essere pronti a dare il meglio domani.

Il negozio di dolciumi
Mi sveglio decisamente poco riposato: un vicino di letto tedesco, russatore e pieno di birra, è un metodo formidabile per passare una notte movimentata ed insonne. Davide ha dormito tranquillamente, senza mai svegliarsi: beato lui! Io me ne starei volentieri ancora a letto, visto che stanotte mi sono svegliato come minimo dieci volte, ma non c'è tempo per poltrire. Oslo ci sta aspettando. Non sapendo assolutamente dove e cosa mangiare per colazione, optiamo per un negozietto che abbiamo visto en passant la sera precedente proprio a due passi da noi, sperando di trovare qualcosa di sufficientemente nutriente per tenerci in piedi tutta la mattinata. Sembra un normale negozio di alimentari, ma entrando scopriamo che non è esattamente così: in tutte le città nordiche sono molto diffusi questi pseudo-negozi specializzati unicamente nella vendita di caramelle, dolciumi vari ripieni di cioccolato fino quasi a scoppiare, cioccolata, bibite gassate, salatini, patatine e altro cibo decisamente poco sano. Chi ci capitasse dentro in cerca di qualcosa di sostanzioso da consumare per pranzo, rimarrebbe decisamente deluso! Dopo attenta valutazione scegliamo ciò che ci sembra più innocuo: una banale aranciata. Si rivela semplicemente imbevibile: è gassata e zuccherata ad un livello tale da costringermi a buttare via la mia bottiglietta dopo solo qualche sorso, appena sufficiente a placare la sete. Non voglio certamente farmi venire un tumore allo stomaco alla mia età. Maledicendo le abitudini alimentari nordiche e contando di mangiare meglio prossimamente, ci dirigiamo finalmente verso il centro della città.

Oslo
La prima zona che raggiungiamo è quella portuale: su di essa si erge una strana costruzione quasi interamente bianca e lucente, che si rivela essere il prestigioso Teatro dell'Opera. È l'unico edificio che colpisce seriamente il nostro sguardo, nella normalità generale nella quale nulla spicca particolarmente sul resto. Ha dei gradini volutamente irregolari messi ad ampi intervalli, che spezzano la monotonia delle rampe levigate, e domina fieramente la scena marittima composta da numerosi promontori naturali e da rientranze create dall'irregolare costa norvegese. Il sole è cocente: i suoi raggi leggermente più inclinati dal cambio di latitudine sono ugualmente molto carichi di energia. Lo sentiamo presto sulla nostra pelle, iniziando a sudare copiosamente sotto i nostri maglioni scuri che assorbono moltissimo la radiazione solare riflettendone solo una percentuale infima. Le strade sono ben fornite di piste ciclabili munite di semaforino regolatore, sottopassaggi e sovrappassaggi, dando un'aria di funzionalità e di sicurezza quasi palpabile. Anche il traffico è perfettamente scorrevole e non ci sono ingorghi di alcun tipo. I semafori per l'attraversamento pedonale sono tutti muniti di segnale acustico per i non vedenti, e non c'è automobilista che non si fermi per lasciarci passare sulle strisce zebrate. Non uno. Abituati a tutt'altro trattamento, non riusciamo a credere a ciò che vediamo, ovvero automobilisti che rallentano e si arrestano prontamente quando solo diamo l'impressione di voler tentare un attraversamento. Quando li ringraziamo agitando la mano ed affrettando il passo come da perfetta tradizione italiana, notiamo una certa sorpresa da parte loro: perché questi mi stanno ringraziando quando ho solo fatto il mio piccolo dovere civile? Ma forse non conoscono certe scene che in Italia sono la norma. Anche dal punto di vista della criminalità, le città nordiche sono molto sicure, e non è solo una frase di circostanza scritta sulle guide turistiche: mai nessuno che ci abbia infastidito, mai una scena di violenza, mai avuto problemi con la gente del posto nè con i numerosissimi immigrati di ogni nazionalità che popolano le città, Oslo in particolare. Gli abitanti del posto sono proprio come vengono descritti: tranquilli e piuttosto riservati, ma all'occorrenza anche socievoli ed ospitali.
La prima delle nostre numerose mete culturali programmate è il museo dei vecchi residuati bellici. La nostra benemerita carta studenti internazionale del CTS ci garantisce un cospicuo sconto sull'entrata in tutti i musei, e a prezzo ridotto possiamo ammirare una lunga fila di cannoni e bombarde ancora inquietanti nonostante non sparino più da parecchi decenni. Essi fanno da contorno a due impressionanti carri armati un po' arrugginiti ma ancora integri, del peso di quasi cinquanta tonnellate l'uno, come spiegato dal pannello informativo. La bocca di fuoco è ormai dormiente ma non per questo meno minacciosa. All'interno del museo invece c'è ogni tipo di arma da guerra esistente, dalle umili baionette fino ai potenti siluri da sottomarino, uno dei quali veramente da rimanere a bocca aperta: oltre sette metri di lunghezza per trecento chilogrammi di peso, un mostro di latta grigiastra e perfettamente liscia, dalla potenza distruttiva grande tanto quanto la sua insensatezza e la scelleratezza di chi l'ha progettato e costruito. È poi il turno di un famoso castello di epoca medioevale dagli enormi e luminosi saloni e dalle suggestive viuzze lastricate che lo circondano, immortale nella storia che ha alle spalle. Sul lato rivolto verso il centro cittadino si stagliano fieri non pochi cannoni di colore verdognolo che sembrano puntare direttamente al porto per distruggerlo, l'effetto è molto realistico nonostante siano ovviamente solo ornamentali. Una volta camminato su ogni bastione e visitato tutto questo gioiello architettonico da cima a fondo, possiamo darci all'ozio in una delle numerose panchine nelle vicinanze, finalmente all'ombra. Siamo appena all'inizio delle nostre camminate, ma i nostri piedi fin troppo lisci e disabituati iniziano già a soffrire: le vesciche, croce di ogni viaggiatore insieme ai disturbi gastro - intestinali, stanno aspettando solamente il momento giusto per comparire e rovinarci le giornate. Escogito subito un sistema molto artigianale per eliminare il problema: il cerotto di tela bianca rimasto nelle mie tasche dopo il mio ultimo tirocinio in neurochirurgia si rivela eccezionale per ridurre gli attriti sulle parti più sensibili della pianta del piede e risolvere quasi radicalmente il problema. Devo però stare attento a sistemarlo senza formare pieghe, o tali grinze potrebbero peggiorare gli strofinii e causare lesioni anche più fastidiose; ma faccio un lavoro perfetto, da vero studente infermiere al secondo anno: presto il problema è dimenticato e siamo nuovamente pronti ad affrontare lunghe camminate.
Passeggiando per il lungomare troviamo lo squadrato ed altissimo municipio di mattoni rossi e poco più in là il palazzo dove avviene la consegna del premio Nobèl per la pace. Non tutte le cerimonie per i premi Nobèl avvengono però qui: i premi per le materie scientifiche e letterarie vengono assegnati nella cugina Svezia. Il viale è decorato da lunghi filari di fiori colorati, mentre qualche barca a vela ormeggiata mostra i suoi alberi maestri, spogli da vele. Presto ci troviamo a camminare sul conosciuto Karl Johans Gate, il principale viale della città su cui si trovano la gran parte degli edifici storici: il Palazzo Reale e l'Università, entrambi ottocenteschi, e qualche centinaio di metri più avanti il Parlamento, molto sfarzoso e barocco. Il vialone è lungo in totale più di un chilometro e mezzo, e alla vista dall'estremità in rilievo è semplicemente splendido: sul lato destro, quasi del tutto sgombro da edifici e palazzine, si trovano fontane dalle forme più bizzarre, aiuole di fiori variopinti, statue intervallate da chioschi gastronomici che vendono piatti tipici con ottimi profitti. Il viavai di persone è continuo, la strada non sembra mai svuotarsi, per giunta è l'ora di punta, ma la densità umana si mantiene ancora entro i limiti del sopportabile. I numerosi alberi e le panchine disposte strategicamente sotto di essi ci riservano un po' di ombra e riposo, necessari periodicamente per riportarci in temperatura, con il sole che si sta facendo sempre più implacabile.
La gente che si incontra passeggiando per questo brulicante viale appartiene a tutte le etnie: i norvegesi si riconoscono subito, con i loro capelli biondi e la corporatura piuttosto robusta, ma sono numerose anche le persone di carnagione scura, musulmani in quantità, frotte di giapponesi e soprattutto di italiani: come una maledizione strisciante, sentiamo parlare il nostro idioma da qualunque parte ci giriamo. La nostra nazionalità non ci permette di lamentarci, non siamo niente in più di loro per avere il diritto di essere qui, ma arrivare in un posto distante diverse migliaia di chilometri da casa e sentire ancora parlare nella propria lingua può essere veramente seccante. In ogni caso gli italiani all'estero sono l'ultimo dei nostri problemi: le voci dei nostri connazionali passano in secondo, in terzo e progressivamente minor piano, mentre percorriamo questo ricchissimo viale, in cui ad ogni metro c'è una sorpresa nuova.
Presto sentiamo gli effetti del caldo, degli ormai inutili vestiti pesanti che abbiamo addosso e dello stomaco che brontola senza poter essere calmato da qualche sorso d'acqua; dopo tutto questo sole e questo camminare abbiamo proprio voglia di fermarci, ma non c'è nessun posto che non paia costosissimo. Ad un passo dal vaneggiamento, mentre giungiamo in una confluenza con densità di passanti e di venditori ambulanti elevatissima, scorgiamo per miracolo un fast food al quale ci fermiamo per un'oretta, tempo in cui sentiamo la vita rifiorire nuovamente in noi, nonostante all'interno faccia caldo tanto quanto all'esterno. Riempito lo stomaco, ripartiamo cercando il Munch Museum, logicamente dedicato al grande pittore nato a Løten, nel sud della Norvegia. Esso però contiene solo le copie dei dipinti più famosi, come l'Urlo e la Madonna: i veri dipinti sono in un altro museo in un'altra zona di Oslo. Non essendo un grande appassionato d'arte, i musei non sono il mio pane, ma non possiamo di certo perderci una delle attrazioni più famose della città. La visita passa veloce, tra i miei sguardi distratti e sfuggenti che si soffermano solo su ciò che pare straordinario a prima vista, contrapposti a quelli più attenti e prolungati del mio compagno, maggiormente avvezzo ai musei pittorici e ben più ferrato di me in materia artistica. Esauriti i quadri da ammirare, passiamo il resto del pomeriggio stesi sull'erba del parchetto appena lì fuori, a respirare aria pulita sotto qualche frondoso albero, giocando a briscola per ingannare il tempo, senza obblighi nè doveri di alcun genere. Questo è l'aspetto più bello di un viaggio non organizzato, soprattutto se affrontato in pochi: è infinitamente più facile trovarsi d'accordo e decidere cosa fare. Non è vero nemmeno che un lungo viaggio in due persone debba essere per forza noioso: tutto dipende dalle risorse interne di ognuno, dalla capacità di recepire gli stimoli. Sicuramente il Nord non è un posto dove ci si può annoiare: troppe e troppo belle le cose da vedere e da fare. E siamo solo all'inizio, chi può immaginare cosa succederà ora della fine? Il solo pensiero infiamma di forze e di energie, la sensazione dell'ignoto è fantastica.
Pochi minuti dopo il nostro ritorno all'ovile, il tedesco varca la soglia della camera con fare gongolante, declamando "I'm drunk and happy!" (Sono ubriaco e felice!). Subito dopo inizia a lamentarsi animatamente con il mite cipriota, a proposito dell'indiano che lascia sempre tutte le finestre chiuse quando esce per ultimo dalla camera. Come ci si poteva aspettare, nel corso dell'infuocato pomeriggio la stanza si è trasformata in un forno crematorio, e aleggia pure un certo odorino lieve ma persistente. La battuta del tedesco è esilarante: "Ma da dove viene questo qui, dall'Inferno?". Risate assicurate per qualche minuto, poi piano piano torna la calma e ci troviamo a chiacchierare con il cipriota a proposito della politica italiana: vuole sapere qualcosa di questa famosa Mafia, che tipo di organizzazione sia, dove stiano le mele marce in Italia. Dopo averlo informato dell'alto livello di corruzione e collusione mafiosa dei politici nostrani, sentiamo i primi morsi della fame. Non abbiamo certamente voglia di spendere tutti i nostri risparmi per mangiare qualcosa di decente, così optiamo per un minuscolo ristorantello, consigliatoci dai gentilissimi gestori dell'ostello: è interamente gestito da turchi che cucinano pizza e kebab, e che parlano a malapena l'inglese. Una pizza Margherita sarà l'ultima cibaria con una qualche parvenza di italiano che mangeremo di lì alla fine della vacanza. Dopo cena è doverosa un'altra camminata nell'arteria principale della città, stavolta con un'atmosfera tutta particolare: nuvoloni neri solcati da qualche raro fulmine, ma senza pioggia. La luce è quasi irreale, sembra un'alba, ma senza sole. Seduti di spalle al Palazzo dei Congressi, con tutto il viale illuminato dritto davanti a noi che si estende a perdita d'occhio, rimaniamo fermi ad osservare il tutto senza pronunciar parola, affascinati dall'atmosfera di vita notturna che si avverte. Un tuono un po' troppo forte ci spinge a muoverci per tornare al coperto, ma ci perdiamo nelle intricate vie del centro proprio mentre sta infuriando la parte peggiore dell'acquazzone, che ci infradicia impietosamente. Ritrovata la via giusta, rientriamo bagnati come pulcini e altrettanto sudati, crollando sui letti vergognosamente sfatti. Nessuno ha voglia di sistemarli, dovranno rimanere così solo per poco ancora.

Crampi
In un orario imprecisato oltre la mezzanotte vorrei seriamente alzarmi per strozzare il tedesco: sta russando anche di più della scorsa notte. Fargli il classico "pissi pissi" non serve a nulla, anzi peggiora la situazione: il russamento aumenta a livelli vertiginosi proprio mentre tento di svegliarlo con il classico sibilo. Di conseguenza passo un'altra notte disturbata, e la mattina presto come compensazione voglio perlomeno fare una colazione decente. Riproviamo al solito negozietto sperando ci sia qualcosa di meglio di quelle orribili aranciate, e stavolta siamo più fortunati: c'è un distributore automatico di caffè, latte e tè che ieri non avevamo notato. Non si capisce esattamente come funzioni, da cui i primi risultati non sono esaltanti: scambiando un erogatore per un miscelatore, sforno un caffelatte terribilmente annacquato, che getto nei rifiuti riuscendo anche ad ustionarmi una mano. Quando riusciamo a produrre qualcosa di decente, paghiamo con le nostre monete norvegesi curiosamente bucate al centro e iniziamo a buttare giù tutto voluttuosamente: abbondiamo con le bustine di zucchero e contorniamo con biscotti anch'essi dall'alto tasso di saccarosio, per contrastare l'ipoglicemia mattutina. Non l'avessimo mai fatto. Lì per lì ci sembra di stare benissimo, ma presto il corpo presenta il suo conto da pagare: appena entrati nel supermercato distante qualche centinaio di metri, sentiamo entrambi l'intestino contrarsi rabbiosamente, costringendoci a posare subito il cestino di plastica appena tolto dalla pila e a tornare precipitosamente in ostello in cerca di un bagno. Gli spiacevoli movimenti continuano per circa tre quarti d'ora, prima di permetterci di ritentare con la spesa. Questa volta abbiamo successo, niente più fughe precipitose dell'ultimo minuto. Non abbiamo però molta scelta su cosa comprare: possiamo permetterci solo dei panini di gomma con la spiccata tendenza a sfaldarsi, mortadella svenuta in bustina, qualche porcheria di dolciume e solo raramente della frutta fresca. La qualità del cibo non è una delle nostre principali priorità: basta che ci tenga in piedi, per comprare qualcosa di più gustoso è meglio aspettare di tornare in un Paese dove la vita costa meno!

Opere d'arte
Dobbiamo sloggiare dall'ostello, il tempo per il check - out è ormai agli sgoccioli. Il cipriota ci saluta dicendo con fare amichevole "Italian Mafia is leaving!", emblematica espressione della considerazione di cui godiamo all'estero. Ricambiamo il saluto a quello che rimane uno dei nostri migliori compagni d'ostello nell'intero viaggio, e riprendiamo la via per la stazione. Depositiamo i bagagli nei lockers a pagamento della stazione, quindi prendiamo la strada per un altro importante museo d'arte, una delle ultime tappe programmate per sfruttare appieno la giornata che rimane. Nel museo in cui ci stiamo dirigendo si trova il vero Urlo di Munch, recuperato per l'ennesima volta dopo l'ennesimo furto. Effettivamente, non è protetto da chissà quale sistema di sicurezza, ma è semplicemente appeso come tutti gli altri quadri, solo in una posizione un po' più appartata. Trovarmi davanti a questo quadro così famoso, presente su tutti i libri d'arte che ho comprato alle elementari, medie e superiori, non mi riempie di particolare ammirazione o curiosità. In compenso non posso fare a meno di esaltarmi quando vedo, gigantesco sul muro, la Caccia Selvaggia di Odino: il quadro di Peter Arbo a cui si è ispirato il musicista metal svedese Quorthon per la copertina di un suo album, che ovviamente apprezzo molto. L'orda divina rappresentata trasuda epicità da ogni pennellata, quella stessa epicità che impregna ogni composizione artistica partorita in queste terre. Tocca poi ad una carrellata di quadri naturalistici davvero fantastici che entusiasmano anche me nonostante non sia minimamente appassionato di pittura. Raffigurano paesaggi più o meno inventati dell'estremo Nord: un preludio di ciò che ci aspetta? Semplice fantasia degli artisti? Lo scopriremo tra una decina di giorni.

Il villaggio
Finiti i quadri, è l'ora di un deciso cambiamento di programma: un villaggio tipico norvegese, ora riadattato a museo. Casette di legno a tetto spiovente, dai colori più disparati che spaziano dal giallo al rosso vivo, fino all'azzurrino. Piccoli cortili circondati da bianche staccionate. Finestrelle anch'esse contornate di bianco e munite di tripli vetri per isolare meglio dalle rigide temperature dei mesi invernali, e rossi interni così angusti e raccolti, che lasciano a malapena lo spazio per muoversi. Fanno venire una voglia incredibile di abitarci, per la loro atmosfera così antica e suggestiva e gli spazi così piccoli che ispirano protezione e riservatezza. È davvero affascinante vedere come vivevano i norvegesi fino a non molto tempo fa, e come qualcuno vive tuttora: queste casette hanno un che di fiabesco. Una bambina vestita di abiti tradizionali sta preparando un caffè in una delle stamberghe, con la probabile madre che stende i panni fuori, anch'essa vestita come una fiera donna vichinga. Nei loro occhi chiari si legge l'attaccamento alle tradizioni che ha questa gente, che mai rinnegherebbe il suo glorioso passato e le fantastiche conquiste che ha ottenuto. La riproduzione del villaggio è organizzata ed inscenata alla perfezione: c'è da domandarsi se non vivano davvero lì. Oltre vi sono capanne su palafitte dalle strane forme oblunghe o irregolari, interamente costruite in legno scuro non verniciato. Buona parte hanno l'erba che cresce sul tetto, come se fossero emerse direttamente dal bosco selvaggio. Un divertente particolare che però ha anche un risvolto ecologico non indifferente: se tutte le case al mondo avessero l'erba sul tetto, chissà quanta anidride carbonica in meno ci sarebbe nell'atmosfera! Rimaniamo veramente colpiti da ciò che vediamo, e proseguiamo lungo il sentiero battuto con crescente meraviglia. Incrociamo qualche maiale che grufola allegramente nel suo cortile rotolandosi nel fango senza timore di sporcarsi, poi un socievole gatto a pelo corto che non ci teme e si lascia accarezzare fiducioso, strusciandosi sulle nostre gambe come fanno tutti i gatti per salutare gli esseri umani di cui ritengono di potersi fidare. I gatti sono senz'ombra di dubbio gli animali più belli ed eleganti del mondo!

Agli sgoccioli
Le nostre gambe stanno iniziando a dare segni di cedimento dopo tutto questo camminare senza sosta, da cui ci fermiamo all'ombra di qualche albero per mettere qualcosa sotto i denti, osservando un gruppo di bambini giocare con dei trampoli. Una panchina su cui sederci è ora un toccasana, ci rimaniamo per un'oretta, prima di partire per la prossima ed ultima attrazione, da raggiungere in autobus: il museo delle navi vichinghe. In realtà è un unico stanzone in cui si trovano tre relitti di drakkar, le navi da guerra vichinghe dalla caratteristica prua a spirale, che nel caso delle navi più grandi è talvolta modellata per assumere la forma di animali mostruosi come serpenti marini e draghi, necessari per incutere timore al nemico e proteggersi dalla malvagità delle mitiche creature marittime. Pur belle che siano, nel piccolo museo non c'è altro, da cui usciamo presto per darci nuovamente al relax sull'erba. Ormai la visita di Oslo e dintorni sta volgendo al termine, ci aspetta verso tarda sera il treno per Stavanger. Via, verso la stazione, salutando questa ambigua città forse non così splendida come ce la saremmo aspettata, un po' difficile da digerire e comprendere, ma comunque dotata della sua buona fetta di fascino ed interesse. Non possiamo certo dire di essere rimasti delusi, questo no!
Cinque ore è il tempo che dobbiamo far passare prima di prendere il treno notturno. In quelle ore passiamo il tempo a rielaborare ciò che abbiamo appena visto: osserviamo l'apparente freddezza degli sguardi dei nordici, i negozi con gli articoli a prezzo decisamente elevato, le fornitissime ed ubiquitarie librerie atte a soddisfare la risaputa passione degli abitanti per la lettura. Per ammazzare il tempo risaliamo in cima al Teatro d'Opera, rischiando costantemente di inciampare negli insidiosi gradini. Dalla piattaforma superiore ci godiamo un tramonto un po' nuvoloso, e prendiamo anche qualche goccia di pioggia che inizia a cadere proprio mentre stiamo decidendo di rientrare. La brezza si fa sempre più tesa, è meglio ripararsi al caldo.

Notte in treno
Questa notte dormirò per la prima volta in vita mia su di un treno, e mi sento decisamente preoccupato viste le grosse difficoltà che ho nel dormire seduto: non mi riesce assolutamente, nemmeno dopo viaggi di ore e ore in automobile o in pullman, in cui spesso sono l'unico oltre al guidatore a rimanere sveglio. In ogni caso i treni notturni ci sono molto utili, non possiamo lesinare su di essi: il risparmio che ci garantiscono in termini di tempo e soldi è notevole, e ciò può essere decisivo in un economia di ventitrè giorni, apparentemente numerosi ma in realtà molto compressi e talvolta incerti. Il treno finalmente arriva al quarto binario, ed i nostri posti prenotati alla cieca si rivelano tutto sommato comodi: il personale del treno ci ha gentilmente lasciato una mascherina per gli occhi, una coperta e due paia di tappi per le orecchie, tutto incluso. Il sedile si può reclinare ma non sufficientemente per stare sdraiato come vorrei, da cui mi preparo ad una notte difficile. Penso però che sarebbe potuta andarmi molto peggio: nei posti immediatamente dietro di noi gli schienali dei sedili non si possono abbassare nemmeno di un millimetro, essendo a contrasto direttamente con la parete posteriore della cabina. Il controllore passa tra i sedili subito dopo la partenza in cerca di sprovveduti senza biglietto, non trovandone nessuno, e una volta finito il suo giro le luci vengono abbassate notevolmente per permettere ai viaggiatori di prendere sonno. Forse questo accorgimento mi aiuterà un po', penso.
Niente da fare. Dopo due ore sono ancora al punto di partenza, continuo a rigirarmi nel sedile in cerca di una posizione conciliante il sonno, ma senza il benchè minimo risultato. Tuttalpiù riesco a distruggermi qualche vertebra del collo per averlo tenuto piegato di lato troppo tempo senza accorgermi della posizione scomoda. Comincio ad irritarmi, ma non ci posso fare niente. Davide, che non ha di questi problemi, si è già addormentato da un pezzo. Io mi rassegno a passare la notte in bianco, ma una piccola consolazione c'è: quella di vedere la luce del sole sotto l'orizzonte a notte inoltrata, scena che non mi era mai balzata davanti agli occhi prima d'ora. Questo spettacolo mi riscuote dall'apatia dell'accennato pre-sonno e mi allieta un po' il viaggio: non capita tutti i giorni di vedere la luce a quest'ora, seppur lieve ed accennata. Il sole è nascosto dietro le montagne, ma non è lontano.i suoi tenui raggi creano un'aura di colori sbiaditi attorno alle creste delle montagne, un altro momento che mi si scolpisce in mente e che se avessi dormito mi sarei perso.
Intanto arrivano le ore piccole. Gli sbadigli si fanno sempre più frequenti ed estenuanti, la voglia di addormentarmi aumenta. Il sonno a tratti è addirittura violento, ma non ce n'è: la posizione semiseduta rovina tutti i miei sforzi, sia che tenti di rilassarmi e non pensare a niente, sia che ricerchi la posizione più comoda in un continuo rigirarsi senza tregua. Il massimo che riesco a fare è cadere in uno stato di trance che potrei definire come dormiveglia profondo, ma che non diventa mai sonno vero, se non per pochissimi insignificanti minuti, di cui non ho memoria nè certezza. La notte passa lentamente, ma passa, come le lunghe notti di turno in ospedale, che paiono interminabili ma che alle sei di mattina improvvisamente sono finite...e alle sette l'agonia termina definitivamente. Siamo arrivati alla stazione di Stavanger.

Stavanger
Questa cittadina di oltre centomila abitanti è famosa per la fiorente industria petrolifera che ospita, ma non offre alcuna attrazione turistica di rilievo. L'unica cosa che abbia una parvenza artistica è un simpatico laghetto circolare posto proprio di fronte all'uscita della stazione che stiamo attraversando in questo momento, ancora un po' disorientati e infastiditi dallo sbalzo di temperatura e di luce con l'esterno. Una fontanella posta proprio al centro del laghetto spruzza acqua in ogni direzione, costantemente. Non abbiamo tempo di osservare la scena, dobbiamo trovare in fretta un ufficio informazioni: solo lì ci potranno dire dove si trova il nostro ostello, e soprattutto come dobbiamo fare per effettuare la gita al Preikestolen, l'unico motivo per cui siamo qui. Tradotto in italiano come "Roccia Pulpito", si tratta di una mastodontica roccia a forma di parallelepipedo situata lungo un fiordo, e strapiombante per seicento metri sull'oceano Atlantico. Una meraviglia di architettura naturale ed una tappa irrinunciabile per qualsiasi viaggiatore che approdi in Norvegia. La febbre della conquista brucia in noi, ansiosi come siamo di raggiungere anche questa meta, ma le cose iniziano ad andare storte: orientarsi a Stavanger, della quale non sappiamo nulla, non è per niente facile, e il tempo a nostra disposizione è fin dall'inizio molto scarso. Non possiamo certo tentare la salita alla Roccia con gli zaini pesanti sulle spalle, nemmeno nel più sconsiderato impeto di spirito d'avventura estrema. Non arriveremmo in cima vivi portandoci dietro tutto il peso dei vestiti, delle guide turistiche e degli accessori vari, lì completamente inutili. Così dobbiamo lasciarli in ostello od in alternativa nelle casseforti della stazione dei traghetti, della quale ignoriamo l'ubicazione. Calcolando male i rischi optiamo per il deposito in ostello, decisamente lontano e irraggiungibile a piedi dalla stazione. Per arrivarci bisogna prendere uno dei numerosi bus urbani che servono il paese in ogni angolo, per poi logicamente riprendere lo stesso bus e tornare indietro...un piano azzardato e rischioso.
Con una veloce puntatina all'ufficio informazioni che è tutto men che vicino alla stazione, e con il successivo aiuto di un autista di pullman, riusciamo infine a trovare la fermata giusta per raggiungere l'ostello. Lì incontriamo una signora che parla italiano, infatti arriva da Chiasso, pochissimo oltre al confine tra Svizzera ed Italia: è proprio vero che il mondo è piccolo! Dopo averci parlato dei suoi parenti che abitano all'isola d'Elba, nemmeno troppo distante dal paesino di nome Lacona in cui sono stato un paio di volte in vacanza e che lei conosce, ci chiede la nostra destinazione: essendo abitante del posto da molti anni, ci può sicuramente dare delle informazioni utili su come muoversi in paese e su quali fermate preferire per il nostro programma. La ringraziamo moltissimo per il vitale aiuto e scendiamo alla fermata da lei indicata, la terza dopo che lei ha abbandonato l'autobus. Il problema è che di quest'ostello non v'è nemmeno l'ombra, vediamo solo un camping coperto in ogni centimetro quadrato da tende e roulotte, con alcune case in legno ancora in fase di tinteggiatura. La reception è chiusa, aprirà di lì a cinque minuti stando a ciò che recita il cartello affisso sull'entrata. Ci sono un po' di persone che stanno aspettando fuori, con l'aria seccata. Saranno anche loro clienti dell'ostello che stanno cercando? Sarà veramente la reception dell'ostello quella? Non possiamo saperlo finchè non apre, ed il tempo utile per prendere il traghetto è sempre più agli sgoccioli. Non sappiamo assolutamente cosa fare e ci sta salendo una spiacevole ansia: è meglio rimanere lì ancora cinque minuti o forse più fino all'apertura della reception, o tornare immediatamente alla fermata del bus e riprendere la via della stazione, lasciando i bagagli nelle casseforti apposite per poi prendere subito il traghetto? Non abbiamo molto tempo per decidere in modo ponderato, per cui tentiamo la fortuna scegliendo la soluzione più immediata, ripartire subito. Il bus dal quale siamo scesi poco prima tarda solo qualche minuto ad arrivare, ma quei minuti potrebbero fare la differenza tra salire sul traghetto e vederselo passare davanti. Quando finalmente lo scorgiamo percorrere senza troppa fretta le curve in cima alla strada, dirigendosi verso di noi col motore che ansima e borbotta, saliamo e scopriamo con sorpresa che c'è a bordo la stessa signora di prima. Andiamo subito a spiegarle la situazione, e lei vedendoci in difficoltà si offre di portarci i bagagli nell'albergo della zona, dove lei lavora, così da liberarci finalmente da quei fardelli e partire immediatamente. L'offerta è allettante, ci teniamo veramente a prendere la coincidenza giusta, avendo già calcolato che la successiva causerebbe enormi problemi di tempistiche, probabilmente rovinandoci la giornata. Ci consultiamo per un attimo tra di noi, ma uno sguardo diffidente di Davide mi convince che per quanto l'anziana signora si mostri gentile e disponibile ad aiutarci e molto probabilmente non sia intenzionata a derubarci, non possiamo fidarci a lasciare in mano i nostri bagagli a quella che è pur sempre un'estranea. Che ne sappiamo poi della fine che avrebbero fatto? Al che rifiutiamo la proposta gentilmente ma con decisione, ignorandola quando si mette a profetizzare minacciosamente che probabilmente perderemo il traghetto. Una volta scesi dal bus inizia la corsa folle per raggiungere la stazione navale, fortunatamente poco distante da quella ferroviaria. Raggiunga, sistemiamo i bagagli in fretta e furia cercando febbrilmente le monetine da inserire per poter chiudere a chiave il locker, e ripartiamo a razzo verso la biglietteria davanti alla quale siamo appena passati, già convinti di essere arrivati troppo tardi. Sorpresa! Solo adesso apprendiamo che il nostro traghetto arriverà tra ben tre quarti d'ora e non a momenti come pensavamo fino ad un attimo fa. Il traghetto che parte alle nove in punto appartiene ad un'altra compagnia navale! Accidenti alle informazioni sbagliate! Tanta fatica e apprensione per nulla, ma almeno possiamo tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, nonché fare una colazione decente nel tempo che ci separa dalla partenza. Decente significa qualche tossico biscotto all'amarena con del succo di frutta appena meno disgustoso di quello preso a Oslo, che finisce anch'esso allegramente nel cestino dopo qualche stentato sorso. Inutile ogni tentativo di farselo piacere, è veramente ripugnante. Vorrei strozzare i nordici che riescono senza problemi a bere quel liquame di fogna, propinandocelo come "succo di frutta 100% naturale".
Consumata anche questa poco appetibile colazione, è tempo di prendere il traghetto per Tau che tanto abbiamo temuto di perdere irrimediabilmente. Il sole batte forte anche oggi, si prospetta una splendida giornata, l'ideale per un itinerario di trekking avventuroso. Siamo felicissimi di essere riusciti a prendere il traghetto della mattina, l'energia è salita di nuovo a livelli stellari e siamo pronti ad affrontare le due ore e mezzo di salita necessarie per posare i piedi sulla rude roccia granitica che regna incontrastata sul Lysefjord. Il traghetto approda e saliamo sull'autobus che ci porterà fino all'area di ritrovo, insieme a una cinquantina di persone che vogliono tutte come noi tentare la salita. Percorrendo lentamente le vie di montagna punteggiate qua e là da casette bianche dai fioritissimi giardini, ci rilassiamo per un venti minuti finchè all'arrivo in un polveroso spiazzo non ci troviamo davanti un cartello dalla scritta inequivocabile: Preikestolen, per di là. Si scende, l'avventura inizia!

La salita
Armati di scarpe da trekking e di spirito di avventura e conquista, iniziamo decisi a inerpicarci su questo sentiero che inizialmente sembra ben tracciato e livellato. Presumiamo una salita tranquilla e panoramica, in cui fare affidamento soltanto sul fiato e sulla buona volontà di arrivare presto in cima, ma nessuno dei due ha un'idea precisa di quale sia la reale natura di questo percorso. Sulla destra possiamo scorgere gli ultimi lembi di oceano che sono penetrati fino a qui serpeggiando in mezzo alle montagne: è veramente paradossale vedere il mare confinare direttamente con esse, ma in Norvegia questo paesaggio è la norma, anche se per i nostri occhi è ancora troppo presto per farci l'abitudine.
I miei verdognoli scarponcini sono forse un po' troppo nuovi e poco collaudati per risultare comodi e inoffensivi per i piedi, ma non posso certo stare a badare a queste sottigliezze: oggi è probabilmente l'unico giorno in cui si rendono realmente necessari e non voglio certamente tornare a casa senza averli mai messi! Ferrati gli zoccoli, i primi dieci minuti fila tutto liscio come l'olio, ma il nostro ottimismo è presto intaccato da una poco incoraggiante rivelazione: finito il primo tratto, il sentiero muta radicalmente la sua morfologia, ed ora consiste quasi interamente in massi e rocce irregolari che tappezzano completamente la strada. Tutte queste rocce sono ovviamente da scavalcare o aggirare, poggiando il piede nel posto giusto, stando attenti a non sbilanciarsi e a non caricare il peso su una lastra aguzza ed instabile che si muove e rischia di far capitombolare all'indietro, e soprattutto a non causarsi qualche fatale distorsione alla caviglia che qui sarebbe un problema veramente difficile da gestire, specie se occorsa più avanti nel percorso. I piedi iniziano subito a soffrire per via del sentiero così aspro ed irregolare, il fiato per fortuna non ci manca ma la natura della strada rende tutto doppiamente arduo. Come se non bastasse, il percorso è popolato da centinaia di persone che intralciano il percorso a noi tanto quanto noi lo intralciamo a loro: sono tantissimi quelli che stanno tentando la scalata alla mitica roccia, molti di più di quelli che ci avevano fatto compagnia nell'autobus. La maggior parte di questi sono, manco a farlo apposta, italiani, da cui sentiamo ancora ovunque le voci che parlano la nostra lingua, ma ce ne curiamo molto poco: la concentrazione è tutta dedicata al mettere un piede davanti all'altro senza farsi male.
Alterniamo momenti di accelerazioni furiose a testa bassa, stufi di non vedere mai un punto di arrivo, con altri di camminata enormemente rallentata per un colpo di fatica. Ogni crinale roccioso sembra essere l'ultimo, ma poi si scopre che ce n'è ancora un altro identico da raggiungere prima di arrivare in cima. La montagna sa essere atroce! La strada inoltre non è una salita uniforme ma è un continuo e imprevedibile saliscendi che mette a dura prova i piedi, costretti prima a volgersi in un senso e poi nell'altro senza potersi mai abituare ad un andatura regolare. Solo raramente godiamo di un po' di sollievo quando nelle rare parti pianeggianti ci sono dei ponticelli in legno piantati su un terreno misto tra l'erboso e il paludoso. Ma si tratta di un sollievo di breve durata: in men che non si dica siamo di nuovo in mezzo ai sassi. Quando finalmente, passo dopo passo e un'imprecazione dietro l'altra, il tremendo sentiero pietroso finisce, lo scenario varia nuovamente. Ora non c'è più nemmeno un sentiero vero e proprio, ci sono solo rocce larghissime e discretamente piatte dalle quali bisogna continuamente scendere e salire, con alcuni punti in cui vanno letteralmente scalate dal basso prendendo lo sprint per non fermarsi a metà. Spesso sbagliamo strada finendo in vicoli ciechi che terminano in un laghetto, e dobbiamo ritornare indietro di qualche metro, relativamente breve ma reso insopportabile dalla fatica che tende istintivamente a farci risparmiare anche il più piccolo sforzo inutile. Le rocce sono tutte (e dico tutte!) inclinate da un lato, cosicchè il piede non si trova mai dritto ma si flette costantemente ora a destra ora a sinistra, con alto rischio di distorsioni e un sicuro dolore alle caviglie, irritate dal bordo della scarpa. Nessuno attorno ha un'idea precisa di dove sia il sentiero giusto, vediamo la massa di persone aprirsi a ventaglio, ognuno cercando la via più facile in un posto diverso. Solo pochi però riescono a trovare una via agevole, e non siamo tra questi. L'intera scena montana è condita da limpidi laghetti dallo scuro fondale, veramente suggestivi. In essi, alcuni temerari stanno facendo dei rigeneranti pediluvi alla temperatura di forse quattro o cinque gradi centigradi, non li imito nonostante la tentazione si faccia sentire. Sulle montagne circostanti, per metà boscose e per l'altra rocciose, si vedono dei curiosi ed isolati specchi d'acqua. I pini che li circondano da ogni lato paiono minacciose squadre d'assalto, armate di spine e frasche. L'insolito paesaggio contribuisce a lenire un po' la fatica dell'ascesa, esacerbata dalla scarsità di acqua che ci costringe ad un razionamento severo. Passiamo continuamente da vaste zone completamente in ombra, dove senza maglione addosso si patisce un freddo intenso, a zone esposte al sole cocente tenuto a bada molto poco dal cielo quasi completamente sgombro, pennellato solo qua e là da qualche cirro isolato. Togliamo e rimettiamo ogni tanto il maglione pesante, finchè ci stanchiamo e decidiamo di sbarazzarcene una volta per tutte, in barba al freddo e al vento che contrastiamo col riscaldamento prodotto dai nostri muscoli in piena attività.
La faccenda inizia a farsi stressante, ci stiamo preoccupando seriamente sulla distanza che ci rimane da percorrere: ogni volta che troviamo un cartello indicativo scopriamo di essere ben più indietro di quanto pensassimo, traditi dalla morfologia del percorso che fa sembrare molto più lunghi i tratti percorsi quando in realtà si sono fatte poche decine di metri. Tutt'a un tratto passiamo sul fianco della montagna dove ci sono tanti ponticelli di legno collegati tra di loro ed intervallati a delle rocce sporgenti, nelle quali si incastonano magistralmente. Da qui si inizia ad intravedere in lontananza la fine della montagna, il che ci dà nuova forza per continuare. Non possiamo mollare ora che siamo così vicini alla meta!

I primi strapiombi
Dopo altri trenta minuti buoni di scarpinata, coi piedi sempre più doloranti e macerati nel sudore, raggiungiamo senza quasi accorgercene il primo punto in cui la montagna dà a picco sul mare: è impossibile esprimere a parole cosa si prova a trovarsi in un luogo del genere. Lo strettissimo sentiero fiancheggiato dalla roccia da una parte e la vista a strapiombo con l'oceano dall'altra, con ai bordi della stradina soltanto della scivolosa e traditrice erba a fungere da ciglio, fanno una certa impressione. Stranamente, la paura di ruzzolare di sotto non mi sfiora nemmeno per un istante, così come non accuso vertigini che un tempo mi prendevano al trovarmi in un luogo particolarmente alto. La bellezza del panorama e l'emozione di essere lì, finalmente, sovrastano qualsiasi paura e sensazione fisica sgradevole. La stanchezza e i dolori ai piedi non si sentono più, sono come temporaneamente svaniti. Rallentiamo il passo per goderci meglio questi spettacolari paesaggi e per assaporare fino in fondo il brivido dell'emozione. Distogliendo lo sguardo dall'acqua sottostante e rivolgendo gli occhi verso l'orizzonte, vediamo a perdita d'occhio le catene montuose estendersi, magnificate da un cielo terso e illuminato dal sole, ora non più nemico dispensatore di raggi malefici come prima ci pareva. Man mano che ci avviciniamo alla meta vera e propria, lontana solo poche decine di metri da noi, gli strapiombi si fanno sempre più netti e paurosi. La densità di popolazione è sempre più alta, ed ormai la stanchezza non ha più alcun senso: le gambe ritrovano una rinnovata forza e spingono con forza senza più sentire alcuna fatica, finchè il sentiero finalmente si appiattisce e ci rendiamo conto di essere arrivati sullo spiazzo finale. La Roccia è conquistata.

Sulla Roccia
Mi fermo per qualche secondo a digerire la strana e quasi irreale situazione in cui mi trovo: sono su un blocco di granito quasi perfettamente liscio e verticale che si getta a precipizio in quello che sembra un grosso fiume ma in realtà è l'Oceano Atlantico. Le sue acque serpeggiano tra le due catene montuose che si fronteggiano fieramente, dividendole in due e riempiendo le vallate che migliaia o forse milioni di anni fa erano asciutte. Le pareti laterali della Roccia sono completamente sgombre da vegetazione, nessun free climber per quanto esperto ci potrebbe salire. Qualche solitario traghetto carico di turisti solca lentamente le acque, lasciando un'appena visibile scia di schiuma bianca dietro di sé. Sembra così piccolo a guardarlo da così in alto, ed anche il resto del mondo sembra così infimo ed insignificante. Quassù nient'altro ha importanza. Davanti a me un limite nettissimo, una linea retta divide la fine della montagna dall'inizio dell'acqua ben seicento metri più in basso, limite al quale mi avvicino prudentemente sdraiato bocconi onde evitare una fatale sincope da vertigine. L'emozione raggiunge il climax: la mancanza assoluta di protezioni e la visuale diretta sul fiordo dall'altura lascia sensazioni indescrivibili. È davvero incredibile pensare a come la natura abbia potuto produrre un luogo di una bellezza così straordinaria, sapendo che è tutto unicamente effetto dell'erosione dell'acqua sciolta nei ghiacciai, che poi è andata a riempire le vallate sottostanti millennio dopo millennio. Le persone che sono attorno a noi non fanno che vociare concitatamente, in tutte le lingue possibili e immaginabili, ma non me ne curo. Mi siedo sul bordo laterale della Roccia, ammirando un contrafforte che mi sovrasta sulla destra, e lasciandomi cullare dai riflessi del sole sull'acqua che si muove tutte quelle centinaia di metri sotto di me. In certi punti il sole forma delle strane figure sull'acqua, sembrano veri e propri disegni impressi sulla superficie. Guardando giù mi sento come invulnerabile: io sono qua e il resto del mondo è lì in basso. Una sensazione fantastica. Ci rilassiamo finalmente tutti e due, in silenziosa estasi contemplativa.

La discesa
La fatica muscolare richiede però di essere smaltita, e lo stomaco di essere riempito nuovamente: in mezzo alla piana rocciosa facciamo uno spuntino decisamente spartano, più qualche barretta energetica per aiutarci nella discesa, che immaginiamo non più semplice della salita. Rifare al contrario tutti quegli improbabili sentieri, con la stanchezza accumulata e non del tutto smaltita dal breve riposo, non si prospetta un gioco da ragazzi. Vediamo diverse persone che si tolgono le calze per mettere i cerotti antivescica sulle piante dei piedi, esattamente come ho fatto io prima di partire: per chi ha i piedi che tendono a ferirsi e vescicarsi facilmente, quel sentiero non perdona. Oltretutto l'acqua è agli sgoccioli, dobbiamo usarla con parsimonia per evitare di trovarci a metà sentiero con la gola arsa e solo poche inservibili gocce sul fondo della bottiglietta di plastica.
Cominciamo a scendere lentamente, tastando prudentemente ogni roccia per evitare di sentire l'ingravescente dolore ai lati del piede, causato dai continui spostamenti laterali della caviglia quando camminiamo su rocce inclinate. Mano a mano che scendiamo, ci sentiamo decisamente più fortunati rispetto a chi incontriamo mentre sta ancora salendo, e per nessuna ragione al mondo vorremmo essere al loro posto, anche se ciò significherebbe vedere quello splendido spettacolo ancora una volta. Ora che non c'è più febbre di conquista ad infiammarci, avendo raggiunto il nostro obiettivo, sopportare la fatica e i dolori è meno facile. Ripercorriamo lo stesso sentiero al contrario, fermandoci spesso per bere e constatando che probabilmente l'acqua non basterà fino alla fine. In un tratto boscoso dove la sete è di nuovo incoercibile ci consultiamo per un attimo su cosa sia meglio fare: vuotare subito quel che rimane della bottiglia, facendosi durare il più possibile gli ultimi sorsi, o tenere il fondo per emergenza? Scegliamo il tutto e subito, vuotando la bottiglietta in pochi sorsi. Da quel momento non parliamo più per risparmiare le energie e non far inaridire la gola, respiriamo solo col naso e soffriamo in silenzio sulle rocce aguzze che ci fanno prendere continuamente delle lievi ma fastidiosissime distorsioni alle caviglie. Il silenzio viene rotto solo da qualche rara imprecazione quando troviamo il classico masso scivoloso e traditore che fa cadere col sedere per terra, per fortuna senza conseguenze. A scendere impieghiamo quasi lo stesso tempo che abbiamo speso per salire, la consapevolezza che ogni passo ci porta più vicino alla salvezza ci aiuta un po', ma ad un certo punto darei veramente tutto quello che ho pur di essere già in fondo al percorso. Ma come ogni brutto momento che non è mai eterno perché presagisce sempre ad una schiarita, passa anche questo calvario: lentamente ma costantemente, passo dopo passo e una fitta dolorosa dopo l'altra, tastiamo di nuovo con i piedi il suolo asfaltato, che ci sembra una manna dal cielo. La non poca sete residua viene curata immediatamente con un gelato alla fragola, forse il più buono e rigenerante della mia vita date le circostanze. Completamente senza forze e coi piedi distrutti, saliamo sull'autobus che arriva a prenderci dopo una mezzoretta, ci sediamo e vorremmo rimanere lì in eterno, esausti. Ma in fondo siamo indescrivibilmente felici per ciò che siamo appena riusciti a compiere, trovando anche la giornata perfetta per ammirare appieno uno spettacolo che la natura regala solo di rado.

Stanchezza
Ripartendo in traghetto da Tau disponiamo finalmente di un posto abbastanza largo in cui sederci per riposare decentemente, rispetto all'autobus di ritorno in cui c'era a malapena lo spazio per stendere a metà le gambe. Badando a non sprecare nemmeno la più piccola delle energie residue, sistemiamo come possibile zaini e scarpe. Togliendole scopro un piede semidistrutto che nelle parti più massacrate mi duole solo al tocco. Davide cede al sonno e si addormenta ancora seduto dritto, mentre io resisto ma sono così rallentato e privo di forze che potrei cascare a terra da un momento all'altro, scivolando giù dal sedile. La forza di volontà, così necessaria nella difficile ascesa e non meno nella discesa, è ora svanita completamente, mi rimane giusto quella per continuare a respirare. Rimango in quello stato di simil - dormiveglia apatico fino alla fine dell'ora di traversata, recuperando appena quel briciolo di energie che mi serviranno per raggiungere il posto dove potremo finalmente recuperare tutte le forze perdute con una sana e lunghissima dormita, cosa di cui sento assolutamente il bisogno non avendo praticamente dormito la notte precedente. Con il solito autobus locale arriviamo nella già conosciuta zona campeggio, dove una ragazza sta pitturando la facciata di quello che pare un bungalow, con molta solerzia e pazienza. Ci rinfranchiamo pensando che deve per forza essere una dipendente del campeggio e quindi qualche punto informazioni aperto ci sarà di sicuro. Secondo le poche indicazioni che abbiamo, il nostro ostello sta proprio lì, non ci sono trucchi: ed effettivamente, fatti pochi passi in più, scopriamo che si trova letteralmente a quattro falcate dalla sede del camping visitato questa mattina, anche se è più simile ad una lavanderia pubblica o ad una stalla, piuttosto che ad un ostello. Vaghiamo per dei corridoi assolutamente tutti uguali e privi di qualsiasi riferimento, con pareti di un arancione brillante fastidiosissimo per gli occhi, ma non troviamo la nostra stanza. Torniamo indietro a farci rispiegare l'ubicazione della camera: odiamo dover ritornare sui nostri passi lungo la strada che abbiamo appena percorso, specie con i piedi ridotti in questo stato, ma non c'è scelta. La pazientissima receptionist dai capelli rossi e dai modi affabili ci rispiega tutto da capo, pazientemente e senza mai irritarsi quando non capiamo qualcosa. Dopo aver compreso una volta per tutte dove dobbiamo andare, finalmente accogliamo con enorme gioia e sorpresa la nostra camera doppia, come si accoglie l'acqua nel deserto. Possiamo riposarci tutto il tempo che vogliamo senza badare alle vicende di nessun compagno di stanza. Gli scaffali del vicino supermercato vengono letteralmente svuotati dal cibo non appena recuperiamo abbastanza forze per raggiungerlo: i nostri stomaci e soprattutto i muscoli reclamano cibo a volontà per riparare tutti i microtraumi prodotti dalla salita e soprattutto dalla discesa, per non parlare dei piedi profondamente segnati di rosso nelle zone corrispondenti agli attriti con la parte dura delle scarpe. Ripensando a cosa abbiamo appena passato, sul duro sentiero per il fiordo, ci sentiamo veramente dei pascià in riposo serale. Dopo quaranta ore ininterrotte di veglia, finalmente posso dormire come si deve, in conclusione di una giornata passata a sognare ad occhi aperti.

Strada Atlantica
Non c'è come dormire in un letto vero per cancellare completamente la stanchezza accumulata da giorni. L'autobus che ci porterà a Bergen, la nostra prossima destinazione, parte alle nove e tre quarti del mattino, lasciandoci abbastanza tempo per verificare le nostre condizioni fisiche e fare una colazione decente. Le mie caviglie sono ancora molto doloranti: un movimento sbagliato o un colpo anche leggero nei punti offesi è sufficiente a farmi vedere le stelle, potrei inventare una nuova costellazione se qualcuno mi desse un calcio lì. Fortunatamente le scarpe di tela flessibile mi risparmiano il dolore e presto sto camminando nuovamente bene, alla volta della stazione dei bus di Stavanger. Dopo una breve attesa su una delle tante pensiline in serie poste sotto un alto tetto di cemento, il bus parcheggia dinanzi a noi ed il controllore ci ricorda di sua spontanea volontà che se siamo studenti possiamo beneficiare di un consistente sconto sul caro biglietto. Questa è onestà!
Dobbiamo passare cinque ore in viaggio, con diversi cambi nei quali l'intero bus viene caricato su dei traghetti: approfittiamo di questa traversata per riposarci ancora un po' dopo la massacrante giornata alla Roccia, e non di meno per gustarci un altro giro panoramico indimenticabile. Siamo ora su di un tratto della spettacolare strada atlantica norvegese: ad ovest abbiamo direttamente l'immenso Oceano. Vi sono innumerevoli ponti stile Brooklyn, costoni rocciosi ovunque a delimitare le strade che serpeggiano a due passi dall'acqua, altrettanto ubiquitari cespugli di fiori viola intenso che sono una delizia per lo sguardo, mandrie di mucche e pecore che pascolano tranquille sapendo che nessuno le disturberà mai. Il tutto con la musica nelle orecchie che stuzzica la mente e rende quel susseguirsi di paesaggi veramente coinvolgente. Un fraseggio di chitarra impetuoso corrisponde ad una violenta discesa lanciati in velocità, un arpeggio più delicato invece si sposa con una curva stretta lambita dall'oceano. Anche dal traghetto il panorama è meritevole: il sole, che anche in questo caso ci regala tutta la potenza dei suoi raggi senza essere ostacolato dalle nuvole, ci abbronza il volto e rinvigorisce lo spirito. Tornati sull'autobus, passiamo di nuovo da un'isoletta all'altra, in una strada complicata e tortuosa, sempre sospesa tra la terra e l'acqua. Nonostante il tempo di viaggio non sia breve, preferiremmo fosse molto più lungo per poterci godere ancora un po' questo spettacolare panorama nordico, che non è certamente una cosa che si vede tutti i giorni a casa nostra, nelle nostre intasate e puzzolenti strade di provincia.


Seconda parte


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ultimo aggiornamento 19/10/2021