Bergen
Nel primo pomeriggio raggiungiamo finalmente la città. Lasciata la stazione
centrale, molto vicina alla fermata dell'autobus alla quale siamo scesi,
passiamo di fronte ad un laghetto con le onnipresenti fontane situate
proprio in mezzo all'acqua, a non poca distanza dalla costa. Spruzzano i
loro getti altissimi incessantemente, muovendo l'acqua tranquilla con nubi
di goccioline e onde che non le permettono mai di riposarsi. Delle sculture
di triangoli impossibili, interamente in legno, decorano il viale che
costeggia il lago. Tale viale ci porta al cuore della città, che versa
direttamente sul porto: lì, sulla baia di Vagen, si trova il famoso
quartiere di case tipiche denominato Bryggen. Caratteristica attrazione di
Bergen, è classificato dall'organo dell'Unesco come patrimonio dell'umanità.
Si tratta di un intero villaggio di ben duecentottanta casette di legno, che
nella parte frontale al porto sono tutte uguali ma verniciate con colori
diversi. Le finestrelle a volta sono sviluppate in verticale più che in
orizzontale, paiono un po' gotiche. Queste casette sono attaccate l'una
all'altra come delle villette a schiera, con i tetti la cui fine coincide
con l'inizio di quelli adiacenti. Mi chiedo cosa succede quando nevica: si
accumula tutta la neve nelle concavità? I canali di drenaggio dove sono? Non
riusciamo a capirlo, ma di sicuro gli abitanti sanno il fatto loro e sono
attrezzati con tutto l'occorrente per tutte le eventualità. Indispensabile
quando si abita oltre una certa latitudine e soprattutto qui dove le
precipitazioni sono tra le più abbondanti d'Europa. Le casette del Bryggen
sono ormai in buona parte riadattate a negozi di souvenir, ristoranti e
musei, sempre in grande attività data l'ingente mole di turisti che visita
ogni anno Bergen, la prima città di chiara fattura nordica ad apparirci
davanti agli occhi. Si nota dovunque il classico stile di costruzione
locale, con i tetti molto spioventi. Ci sono i soliti mercatini del pesce,
che ogni città degna di questo nome qui deve possedere, più tanti
pittoreschi e strettissimi viottoli che sfociano al molo letteralmente
invaso dalle barche di ogni genere. In massima parte sono pescherecci,
costantemente all'opera per mantenere i grandi quantitativi di merluzzo
pescato che da sempre fanno la fortuna di queste terre.
La città è fantastica, ma siamo molto stanchi e prima di tutto dobbiamo
trovare un ostello per tranquillizzarci sulla nostra sistemazione e poterci
organizzare al meglio. Uno dopo l'altro li troviamo tutti pieni, ma
fortunatamente le ben informate ragazze dell'ufficio turistico ci parlano di
un dormitorio non lontano da dove siamo ora e che non figura in nessuna
guida o carta ostelli di cui disponiamo. È la nostra salvezza: una volta
raggiunto, con gli zaini pesanti ancora addosso dal nostro arrivo in città,
apprendiamo dalla sorridente ragazza bruna della reception che ci sono
giusto due posti liberi per la prossima notte, ma solo per quella. La camera
è un dormitorio da otto posti, molto spartano e minimale. I letti a castello
dalla sottilissima struttura sono verniciati di nero, hanno l'aspetto
veramente povero. La prima persona con cui veniamo in contatto è un
inquietante ragazzone di colore rastafariano, con le classiche treccine e lo
sguardo veramente truce. Sta dormicchiando sul letto a castello proprio di
fronte alla porta. Dopo un primo e biascicato "What's up?", a cui
rispondiamo farfugliando timidamente qualcosa, ci chiede con una voce da
oltretomba la nostra nazionalità, senza nemmeno girare la testa. Dopo la
nostra timida confessione di essere italiani, emette un laconico verso di
intendimento e smette di parlare non curandosi più di noi. Si limiterà
successivamente a squadrarci con sguardi obliqui, da noi il più possibile
evitati. Il resto dei compagni d'ostello invece ci ignora totalmente fin da
subito, ma senza che la cosa ci disturbi minimamente: meglio il silenzio
piuttosto che la parlantina inarrestabile di qualche logorroico inguaribile.
Le porte si aprono con delle mai del tutto sicure chiavi magnetiche che
tendono a guastarsi e smagnetizzarsi con estrema facilità, e l'armadio dove
dovremmo chiudere a chiave i nostri bagagli è difettoso, completamente
scardinato nella parte inferiore. Lo chiudiamo solo dopo non pochi sforzi e
imprecazioni, producendo molto rumore che potrebbe turbare i sonni del
nostro inquietante vicino di letto con chissà quali conseguenze. Dopo aver
riposato qualche minuto, partiamo con l'esplorazione della città.
Il centro è un fermento di attività, con le bancarelle che vendono ogni bene
possibile e immaginabile di commestibile e non, macchine d'epoca
parcheggiate in riva al mare, negozi italiani che offrono gelati alla panna
cotta e al lampone a cui non sappiamo resistere, tavolini all'aperto degli
innumerevoli bar che servono birra a quasi otto euro al boccale. Otto! Un
prezzo decisamente proibitivo al quale non cediamo nonostante la tentazione
di farci una sana birretta di fronte al porto al tramonto sia forte. Dalla
piazza si nota anche la funivia panoramica che percorre la montagna sopra di
noi, ma che per una ragione e per l'altra decidiamo di non provare. I
viottoli della cittadina sono una goduria da esplorare: ce ne sono alcuni
così stretti da sembrare di essere in un antico paesino di montagna. Le case
sono tutte di colori diversissimi tra di loro anche se il bianco predomina;
alcune di esse hanno perfino l'asta per la bandiera incorporata
nell'architettura, che sporge da sotto le finestre del secondo piano.
Camminando per il primo di questi viottoli notiamo un inflessibile vigilessa
che sta multando un'automobile parcheggiata appena fuori dal limite delle
strisce, di fronte ad una chiesa costantemente chiusa ai visitatori. Viene
da sorridere pensando a certi parcheggi selvaggi in terza fila che si vedono
a casa nostra, totalmente impuniti se non in casi proprio eccezionali. Una
casa mostra evidenti segni di incendio, tutta annerita nella parte centrale,
il che spicca immediatamente sulle travi bianche. Nonostante qui piova più
di duecento giorni l'anno, gli edifici bruciano lo stesso. Ma non è l'unica
costruzione che vediamo con questa striscia nera centrale: saranno veramente
incendi, o che?
Non ci sono costruzioni particolarmente alte nel quartiere residenziale,
predomina l'architettura tipica: bassa, squadrata e spigolosa. Le panchine
abbondano, ideale rifugio per ammirare la vita di questa cittadina, specie
le centinaia di persone che entrano ed escono dai negozi di souvenir
cercando qualcosa da portare a casa come ricordo indelebile della loro
vacanza. Sono molto incuriosito dai ciondoli raffiguranti le rune vichinghe,
simbolo di una grandiosa cultura che ancora si nota ovunque passeggiando per
la città, ma costano decisamente troppo per potermele permettere. Così
rinunciamo al proposito e torniamo verso l'ostello, intercettando
un'esercitazione di canto nella chiesetta vicino alla piazza principale. Il
coro intona serie di note via via sempre più articolate, ma non inizia mai a
cantare sul serio: lo spettacolo inizierà solo dopo diverse ore, da cui
accantoniamo il proposito di assistervi ce ne andiamo a dormire.
Musei
Le mete di oggi sono il castello di re Hakon, l'edificio laico più grande
dell'intera Norvegia, e successivamente il museo della pesca, situato vicino
al quartiere industriale. La mattina piove e ci alziamo troppo presto per
quello che è l'orario di apertura dei musei, fissato tra le dieci e le
undici di mattina. Camminiamo molto lentamente verso la nostra prima meta,
perchè il dolore che ho ai piedi per la salita alla Roccia non è ancora
svanito del tutto e basta un movimento falso per riportare a galla delle
fitte dolorose non trascurabili. La pasta all'ossido di zinco si rivela
utilissima per curare velocemente ed efficacemente tutte le abrasioni e
piccole vescicole che si sono formate ad entrambi, permettendoci di
camminare in ogni caso decentemente. Il nostro castello apre troppo tardi,
per cui continuiamo a camminare verso il museo della pesca. La pioggia si fa
più forte e forma una pozzanghera enorme ad un lato della strada, proprio di
fianco al nostro marciapiede. Mentre stiamo camminando passa un autobus e
centra in pieno la pozzanghera qualche decina di metri più avanti a noi:
vediamo coi nostri occhi cosa rischiamo nell'eventualità di trovarsi di
fianco alla pozzanghera quando passa un'automobile. La pozza è lunga, un bel
respiro e la superiamo di corsa in un momento di calma del traffico,
arrivando oltre ancora asciutti. Cessato il rischio doccia, arriviamo nel
quartiere industriale, dove sono ormeggiate alcune enormi navi da trasporto
container in attesa di partire per chissà quale destinazione in giro per il
mondo; probabilmente sono cariche di merluzzi da esportare. Il museo della
pesca apre ancora più tardi del castello, da cui ritorniamo indietro,
stavolta senza bisogno di corse per superare le pozzanghere traditrici.
L'interno del suggestivo castello è realmente angosciante: prima di tutto
visitiamo i sotterranei, le vecchie prigioni. Finestre minuscole e
claustrofobiche, così come le stanze, grandi quel tanto che basta per vivere
(?) ma non di più. Ci chiediamo stupefatti come fosse possibile che degli
esseri umani venissero rinchiusi in quelle celle di isolamento così
terribili, trattati come bestie indegne, e non troviamo risposta per quanto
ci sforziamo. Le scale sono estremamente strette, da salire molto lentamente
per evitare di incastrarsi, così come le porte e i soffitti, che sono
bassissimi e ci si può tranquillamente pestare la testa se non si presta
attenzione. In compenso, la sala cerimoniale è enorme, con il suo pavimento
in legno un po' scricchiolante e polveroso e il tavolo ricoperto da un
decoratissimo arazzo giallo. Una puntatina veloce alla cima della torre per
avere una visuale più generale della città, logicamente splendida anche da
lassù, per poi ridiscendere lungo quelle scale claustrofobiche fino a terra.
Ci viene offerto un caffè gratuitamente al vicino bar, grazie al nostro
biglietto d'entrata. Approfittiamo volentieri di questo insperato e
corroborante spuntino, quindi riprendiamo la strada per il museo della pesca
che ormai è aperto. Abbiamo davanti agli occhi una carrellata di tutti gli
arnesi da pesca usati dai norvegesi, riproduzioni fedeli dei pescherecci,
gli enormi arpioni (veri!) usati per la caccia alle balene, lunghi diversi
metri e terribilmente potenti. Quegli arnesi squarterebbero un essere umano
in mille brandelli di carne sanguinante, con un colpo solo e senza alcuna
fatica: non vorrei certo essere al posto delle sventurate balene.
L'atmosfera mi ricorda molto Capitani Coraggiosi, un libro sempreverde letto
anni e anni fa ma che mai come ora sento vicino, con tutti quei grossi
merluzzi seccati, appiattiti e salati dal caratteristico odore penetrante e
pungente, gli enormi ippoglossi piatti come sogliole riprodotti a grandezza
naturale. Di tutti quegli attrezzi da pesca dalla strana forma non
immaginiamo nemmeno la funzione, e anche le reti da pesca sono una
rivelazione: scopriamo da alcune riproduzioni in scala che vengono messe
sott'acqua a grande profondità, enormemente di più di quello che pensassimo,
per catturare tutto il pesce possibile in una singola pescata. Come doveva
essere difficile fare il pescatore qualche secolo fa, senza le moderne navi
accessoriate con ogni comfort e dotate di tutti gli attrezzi da pesca
intensiva ed automatizzata!
Dobbiamo ora trasferirci di ostello: lasciamo un dormitorio da otto persone
per approdare in uno da dodici. Le porte si aprono anche stavolta a tessera
magnetica e farebbero bestemmiare un santo da quanto funzionano male. Gli
inservienti stanno disinfettando le stanze, passando lo straccio dappertutto
insistentemente dopo averlo imbevuto e strizzato nel secchio della
candeggina. Non c'è nessuno nelle camere e non ci sono nemmeno le lenzuola
pulite posate sui materassi, sembra che siamo gli unici occupanti. Capiamo
che dobbiamo levarci dalle scatole per non intralciare le operazioni di
pulizia: dopo aver buttato gli zaini a terra, completamente incustoditi, ce
ne andiamo a visitare un altro villaggio fuori porta, l'antica Bergen, ora
tramutato in esposizione gratuita. Ancora una volta dobbiamo prendere
l'autobus. Superando ciò che assomiglia vagamente ad un arco di trionfo
romano, entriamo in questo piccolo agglomerato di casette a punta, che si
sviluppa in pendenza. Ormai iniziamo a conoscere l'architettura delle case
norvegesi, per cui non c'è più molto di nuovo da vedere, a parte alcuni
sentieri davvero piacevoli da percorrere, con le siepi che li costeggiano da
ogni lato, inaugurati da staccionate bianche disposte a ventaglio. Il tutto
è accompagnato da stormi di piccioni, gabbiani ed anatre che coesistono
pacificamente a fianco del laghetto, camminando gli uni in mezzo agli altri
senza mai battibeccare per accaparrarsi le briciole di pane lasciate dai
visitatori. Troviamo un posto riparato per consumare il nostro fugace
pranzo, proprio mentre comincia a piovere. Non rimaniamo a lungo nel
villaggio: al ritorno optiamo per qualcosa da vedere al chiuso, evitando
così la fastidiosa pioggerella che sta diventando sempre più fitta ed
insistente.
Acquario
La scelta cade sull'acquario, stavolta raggiungibile a piedi dal centro.
Riprendiamo l'autobus dalla fermata in mezzo alla superstrada e torniamo nei
dintorni del porto, dove assistiamo ad una scenetta davvero comica: un tale
si è lanciato in acqua avvolto da capo a piedi in una rete da pesca
imbottita all'inverosimile di pop corn, e ora sta lentamente nuotando a
dorso verso la riva, gettando a manciate i pop corn che vengono prontamente
raccolti dagli uccelli nella zona. Chiede anche a tutti i curiosi ammassati
a riva, tra cui noi due, se ne volessimo qualcuno, con un'espressione
gioviale ed evidentemente compiaciuta dalla sua eccentrica prestazione. Dopo
averlo osservato per un po' mentre cerca di togliersi di dosso l'ingombrante
rete, passiamo oltre verso la nostra destinazione.
Nell'acquario troviamo ogni genere di animale pensabile, tranne logicamente
i pesci di taglia extralarge. Nelle vasche all'aperto ci sono i pinguini,
esserini curiosamente bassi che paiono avere perennemente freddo da come
tengono le pinne raccolte attorno al corpo. I maschi sono impegnati nella
cova delle uova, e tutti zampettano lentamente con la loro caratteristica
goffa andatura. Da dietro i vetri mi diverto un po' a far impazzire uno
sventurato esemplare, sventolandogli velocemente la macchina fotografica di
fronte al becco e osservando la sua reazione mentre tenta freneticamente di
seguirne il movimento. Poi proseguiamo nella vasca delle grasse foche, un
po' pigre ma molto simpatiche. All'interno invece, in un clima tropicale
artificiale ed asfissiante con palme e liane che calano da ogni dove, stanno
i coccodrilli, i varani e tutti gli animali della zona amazzonica: i
coccodrilli sono decisamente pigri, è difficile convincerli a fare qualcosa,
tantomeno a farsi fotografare. Alcune piccolissime scimmiette dagli occhi
curiosi e attenti sono chiuse in gabbia assieme ad un'iguana abilissima nel
mimetizzarsi sui rami. Nella zona delle vaschette c'è un'altra serie
impressionante di pesci diversi, inclusi ragni e stelle marine, ognuno con
relativo commento scritto e proiettato su un video. Alcuni hanno forme
davvero curiose che attirano l'attenzione, altri si nascondono timorosi di
esser visti.
Vita cittadina
Facendo tappa ad ogni panchina pubblica per far riposare le gambe,
decisamente massacrate da tutto il tempo passato in piedi con pochissime
soste, torniamo in ostello. Qui conosciamo un po' di gente nuova: due
giapponesi inquietanti, uno dei quali si siede per terra proprio di fianco
al mio letto a tagliarsi le unghie dei piedi spargendone i pezzi in giro,
sotto il nostro sguardo un po' divertito e un po' infastidito. Poi un po' di
nordici biondissimi, e infine due ragazze bolognesi della nostra età, anche
loro munite di biglietto interrail, ma che si limiteranno a sedici giorni
dedicati interamente alla Norvegia. Parlando un po' scopriamo che hanno
intenzione di esplorarla da cima a fondo, incluse le tappe di Tromsø e Capo
Nord che noi invece salteremo per motivi di tempistica. Scambiamo un po' di
chiacchiere con loro sugli ostelli visitati, sui nostri programmi di viaggio
e sulla città di Stoccolma, ultima meta del nostro interrail e che loro ci
assicurano essere splendida. In particolare consigliano di non perdersi il
famoso ostello nave, l'Af Chapman! Ma ci penseremo tra parecchi giorni.
Chiacchieriamo ancora un po', dopodichè le salutiamo per andare a mangiare
fuori, questa volta intenzionati fermamente a provare qualche piatto tipico.
Non è ammissibile non comprare mai nulla che abbia il sapore tipico del
posto dove ci troviamo! Passando per la solita viuzza che conduce al centro,
giunge dal cielo l'ispirazione su cosa sperimentare: un chioschetto poco
lontano dal porto sta vendendo degli hot dog di ogni genere, tra cui anche
quelli di carne di renna! Li agguantiamo immediatamente, sono semplicemente
squisiti, un sapore indefinibile se confrontato alla carne di altri animali.
Con lo stomaco pieno riprendiamo a girare in maniera molto disimpegnata per
i negozi della zona, specie all'alimentari dove contiamo di rifornirci: una
volta provveduto ai generi di prima necessità, la nostra attenzione si
rivolge ai frigoriferi che stoccano la birra. Ce n'è di ogni tipo, da quella
che si trova in ogni angolo di supermercato anche a casa nostra, fino a
quelle tipicamente nordiche riconoscibili dalle effigi vichinghe che recano
sull'alluminio. Il prezzo sembra buono: circa tre euro per una lattina da
mezzo litro, ci fanno molta gola. Mentre stiamo valutando se sia il caso di
prenderle o no, allungando la mano per aprire il frigorifero così da
guardare meglio, Davide si accorge tutt'ad un tratto che la maniglia è
legata strettamente con un fazzoletto di cotone bianco, per cui è
impossibile da aprire. Da cui passiamo al secondo, pensando che il primo sia
guasto o chiuso temporaneamente per motivi logistici: ma in un attimo,
guardando meglio, le nostre certezze crollano. Tutti i quattro frigoriferi
sono infatti chiusi col lucchetto, inaccessibili! Ci siamo cascati proprio
come due pere cotte. In Norvegia infatti il commercio dell'alcol è soggetto
a severe limitazioni, essendo il suo abuso un problema di rilevante gravità
sociale: si possono comprare alcolici solo dopo raggiunta la maggiore età ed
esibendo un documento di identità, l'età da raggiungere è direttamente
proporzionale alla gradazione. Ci sono pochi negozi, di monopolio di Stato,
appositamente dedicati alla vendita di alcolici, ma anch'essi sono soggetti
a limitazioni, e il limite di legge di alcolemia alla guida è tale che con
nemmeno mezzo bicchiere di vino si è già quasi certamente fuorilegge. Essere
sorpresi ubriachi al volante qui significa come minimo ventuno giorni di
carcere senza condizionale, oltre ad una salatissima multa! La legge
norvegese è molto severa e non concede scappatoie, a noi potrà sembrare
esagerato, ma sono sicuro che ciò diminuisce significativamente le morti su
strada causate dall'alcol. Oltretutto, gli alcolici comprati in bottiglia
hanno una sovrattassa che verrà restituita solo riportando il vuoto al
negozio. Non abbiamo voglia di trafficare con documenti d'identità per berci
una misera lattina di birra, ma non resisto comunque alla tentazione di
comprare delle caramelle, che però si rivelano così schifose da doverle
sputare subito in preda alla nausea. Tornati in centro, l'insistente vento
inizia a spirare con parecchia forza, da cui per non soffrire troppo il
freddo ci mettiamo addosso i kee-way, unica protezione supplementare di cui
disponiamo. Quel che rimane della serata lo passiamo su una panchina ad
osservare il bellissimo tramonto che tinge di rosso e giallino le
numerosissime nuvole all'orizzonte, creando un quadretto del porto e delle
casette di legno che pare fiabesco. Le persone lasciano le barche su cui
hanno sicuramente preso ben poco sole oggi, le strade invece di svuotarsi si
riempiono sempre di più di gente che adora la vita notturna. Noi però
sappiamo di doverci alzare presto l'indomani, quindi non tiriamo troppo la
corda e ritorniamo al nostro ovile. Lì ci irritiamo non poco perchè le
nostre tessere magnetiche non funzionano più, o meglio funzionano una volta
sì e dieci no. Dobbiamo litigare con la prima porta per riuscire ad aprirla,
e possiamo entrare solo grazie ad altri occupanti che ci salvano con la loro
tessera fortunatamente funzionante. Una volta dentro i problemi non sono
però finiti: la porta della camera si blocca automaticamente qualche minuto
dopo che è stata chiusa dall'interno, costringendoci a rimanere sempre
almeno in uno in stanza per poter aprire all'altro che è rimasto fuori. Per
rendere più vivace la serata, uno dei giapponesi si addormenta con il
portatile ancora acceso, e dalle cuffie che ha sulle orecchie si sente
costantemente e chiaramente una fastidiosissima musica da film sempre
uguale, tremolante e ossessiva fino allo spasmo. L'insopportabile litania
durerà tutta la notte fino alla mattina successiva. Commento rumorosamente
questo fracassone, sicuro di non essere capito, tra le risate del mio
compare che dorme sopra di me nei letti a castello, finchè non cediamo al
sonno. Giapponese fracassone permettendo.
Sulla Flamsbana
La terza giornata presso Bergen è interamente dedicata alla natura ed ai
fantastici paesaggi della zona dei fiordi limitrofa, la più famosa della
Norvegia. In uno dei tre binari, che si insinuano dentro la struttura a
tripla volta della piccola stazione, parte tra poco il treno diretto a
Myrdal. Da questo piccolo borgo parte quello che è descritto come il più bel
tratto ferroviario panoramico dell'intera nazione, culminante nella
successiva gita lungo il fiordo in traghetto. Si preannuncia una
scorpacciata di natura e paesaggi veramente succulenta. Il nostro treno
arriva ancora una volta in orario, come è la regola per i treni nordici, e
velocemente attraversiamo altre montagne ed arriviamo a Myrdal, da cui
prenderemo la coincidenza per la storica linea denominata Flamsbana. Al
momento dell'acquisto dei biglietti nel centro turistico di Bergen abbiamo
scelto di percorrerla in discesa, per vedere un panorama più ampio e goderci
una pendenza vertiginosa. Siamo tutti trepidanti in attesa di percorrere
questo famoso tratto, che si compie in poco meno di un'ora superando con
soli 20 chilometri di binari un dislivello di circa 880 metri. Si tratta
della linea ferroviaria più ripida d'Europa che non faccia uso della
cremagliera, ed un indiscusso capolavoro di ingegneria, con tutte le sue
curve incastonate perfettamente nel coriaceo granito.
Il treno parte lentamente, ancora una volta dopo quasi settant'anni di
onorato ed ininterrotto servizio. Comincia la discesa tenendo i freni sempre
tirati, data la notevole ripidezza dei binari. Le cascate sono
numerosissime: dalle alte montagne che ci sovrastano da ogni lato scendono
in numerosi punti dei rivoli d'acqua a strapiombo, disposti quasi
regolarmente sulle creste rocciose. Dividono in più parti le montagne come
una riga tirata a pennarello, sembra un lavoro fatto da un geometra. La
prospettiva in cui ci troviamo li fa sembrare ancora più alti e minacciosi:
l'acqua scende velocissima, pare possa tagliare in due qualsiasi ostacolo le
si presenti lungo il percorso, come l'acqua ad alta pressione usata in
ingegneria che riesce a spezzare in due perfino le coriacee lastre di marmo.
I freni di questo vecchio treno rivestito internamente di legno stridono in
modo acutissimo, lancinante, a volte quasi assordandoci. Si sente la
locomotiva incespicare e contrastare a fatica l'imperiosa forza di gravità
che tende a tirare giù tutti i vagoni verso il basso come un fulmine
inarrestabile. In alcuni punti vi sono delle gallerie scavate nella
montagna: si aprono delle finestre naturali in mezzo ad esse, tenute
saldamente aperte da delle travi di legno incrociate a mo' di grata.
Passandoci in mezzo sembra di essere imprigionati dentro la roccia, ma è
fortunatamente solo un'impressione: il treno, seppur lentamente e frenando a
fatica, prosegue tranquillo la sua discesa. Raggiungiamo dopo qualche minuto
uno spiazzo panoramico in cui il treno si ferma del tutto e lascia scendere
i passeggeri sulla legnosa piattaforma ivi presente, per permettergli di
ammirare la solenne cascata di Kjosfossen. Essa sgorga furibonda dalla
cresta della montagna appena un centinaio di metri più avanti, per poi
passare proprio sotto di noi. Questa è una vera cascata, molto più larga dei
rivoli visti prima, un vero e proprio fiume in piena che scende impetuoso,
cambiando più volte direzione quando incontra gli scogli indifferenti. È già
uno spettacolo emozionante di per sè, ma lo diventa ancora di più quando da
degli altoparlanti, nascosti dietro le rocce in posizione strategica a noi
invisibile, sale una musica molto evocativa e celestiale, sulla quale
ballano due ragazze biondissime che indossano vesti vichinghe. Le vediamo
spostarsi leggiadramente da un masso all'altro appena davanti alla cascata,
danzando leggere come l'aria sottile di montagna. Sono avvolte dalle nubi di
spruzzi e dal fragoroso rumore dell'acqua che scivola sulle rocce
frangendosi in migliaia di flutti, erodendole nel corso dei secoli con una
forza enorme, spaventosa. Nessuno si aspettava un simile intrattenimento, e
rimaniamo tutti a bocca aperta. Quando la musica finisce, le danzatrici
spariscono nel nulla così come sono apparse, lasciandosi cadere
apparentemente a peso morto al di là del masso. Prima di poter dire
qualcosa, il suono imperioso del fischietto del ferroviere rompe la magia e
ci richiama a risalire sulle carrozze: il viaggio deve proseguire. Le
gallerie scavate nella roccia sono finite, ora siamo all'aperto e possiamo
vedere molto meglio la vallata sotto di noi: ancora cascate, prontamente
filmate da Davide con la sua inseparabile videocamera. Gli stretti fiumi
d'acqua in caduta libera si raccolgono a valle scavando una conca che va poi
a formare degli eleganti laghetti, oltre a provvedere a generare energia
grazie alle centrali idroelettriche sottostanti, abilmente nascoste per non
deturpare la panoramica della zona. Le fattorie e le casupole che si
intravedono ogni tanto, quasi fossero appese sui monti, fanno veramente
domandare come facciano a vivere delle persone in un luogo così isolato, e
parliamo dell'estate, figurarsi in inverno. Questo in particolare è un
aspetto che mi ha sempre suscitato estrema curiosità: queste persone vivono
tutto l'anno in luoghi impervi, eppure sopravvivono lo stesso, magari
vivendo anche meglio di noi, troppo spesso presi dalla frenetica vita urbana
e costantemente sotto stress. Ma chissà, forse anche a loro tutto ciò dopo
un po' viene a noia tanto quanto a noi. Arrivati in fondo al meraviglioso
percorso c'è la cittadina di Flam, un minuscolo borgo portuale e commerciale
che conta circa cinquecento anime, e che è il punto di partenza per il
nostro battello che solcherà tutti i quaranta chilometri del Sognefjord, il
maggiore della Norvegia.
Sul Sognefjord
Il traghetto arriverà tra qualche ora, per cui ci facciamo un giro
spassionato per le piane che danno sul mare, circondate sugli altri tre lati
da montagne dal vago aspetto dolomitico. Non mancano le zone dove potersi
sedere per ammirare il panorama, ma preferiamo camminare un po' per
sgranchirci le gambe. Le montagne del versante opposto a quello del porto
sono molto vicine a noi, si gettano quasi a perpendicolo in acqua. Sembra
che manchi la parte inferiore, come se fosse stata tagliata di netto, ma in
realtà è semplicemente sommersa dall'acqua oceanica che si è insinuata fino
a questo punto dell'entroterra. Mentre aspettiamo, seduti in riva al golfo
in una consueta pausa meditativa, due bambine norvegesi bionde come il sole
e munite solo di costume leggero si tuffano in acqua, che deve essere
gelida, senza provare il minimo brivido o collasso. Rimaniamo allibiti: se
lo dovessimo fare noi probabilmente andremmo a fondo privi di sensi. Anche
le persone che incrociamo sono spesso coperte solo da magliette a maniche
corte, al massimo da giacchette leggere, mentre noi abbiamo freddo pur con
addosso strati e strati di indumenti pesanti. Guardiamo questi individui
quasi insensibili al freddo con crescente irritazione mano a mano che se ne
presentano altri ai nostri occhi: com'è possibile che loro non soffrano
minimamente con i pochi vestiti che hanno indosso, mentre noi non possiamo
tirare giù la cerniera della giacca senza congelare dopo pochi minuti? Forza
dell'abitudine a vivere in paesi freddi e a passare sempre qui i lunghi mesi
invernali, nei quali il sole sorge con una luce flebile solo per pochi
minuti, o addirittura non sorge affatto. Il cielo, fino a poco prima
discretamente nuvoloso, inizia a scurirsi e a coprirsi di nuvole nerastre:
non passerà molto tempo prima che si metta a piovere. Riusciamo a mangiare
tranquilli su una panchina le nostre poco invitanti cibarie, e non appena
finito iniziano a cadere i primi goccioloni. Riparatici in qualche modo,
dopo mezzora arriva il nostro battello a prelevarci. La traversata dura
circa quattro ore, ed è un vero peccato che il tempo sia così brutto: i
fiordi visti dalla barca sono meno emozionanti di quello che abbiamo potuto
ammirare giorni prima dal Preikestolen, in particolar modo quando oscurati
dal tempo uggioso, ma la traversata si rivela comunque piacevole.
Nell'ultima parte diventa però un po' monotona: dopo qualche ora l'occhio si
è abituato al paesaggio e non reagisce più se non nei punti in cui veramente
è impossibile non stupirsi delle curve formate dall'acqua e dalle montagne
insieme. Inganniamo il tempo ascoltando musica e cercando come al solito di
conciliarla al meglio con ciò che ci appare davanti agli occhi. Funziona
sempre. Poco prima del ritorno a Bergen, il comandante supera sè stesso con
un annuncio decisamente divertente, in perfetto inglese: "Vi ringraziamo per
essere stati a bordo con noi, tra poco saremo arrivati e potrete scendere,
ma se le ragazze volessero trattenersi di più, saranno ben accette!". Tra le
risate generali, la piccola nave si ormeggia lentamente nell'ormai
conosciuto porto di Bergen, ed appena scesi puntiamo subito all'ostello. Non
abbiamo voglia di far altro che dormire.
Bergen
Intorno alle sei e mezza vengo bruscamente svegliato dall'allarme
dell'ostello! Non riesco a concepire che un buco del genere disponga anche
di un allarme. La fastidiosissima campanella trilla proprio fuori dalla
nostra porta, ossessivamente, chissà cosa l'avrà fatta scattare. Nessuno si
alza per controllare cosa sia successo, e non appena uno dei norvegesi
vicino alla porta inizia ad uscire dalle lenzuola, la campanella
improvvisamente tace. In un attimo ripiombiamo tutti nel sonno, eccetto
Davide che non si è nemmeno svegliato, unico di tutta la camerata a non aver
levato la testa. Quando non molto dopo ci svegliamo tutti e due, stavolta
grazie alla ben più discreta e mite sveglia nel telefonino, lasciamo
finalmente anche questo dormitorio mentre stanno ancora quasi tutti ronfando
beatamente. Abbiamo così voglia di andarcene che non facciamo nemmeno
colazione. In particolare lasciamo con grande piacere i giapponesi pazzi, le
tessere magnetiche malfunzionanti e gli allarmi che partono ad ogni volo di
mosca. Buttiamo in qualche modo le lenzuola sporche in fondo al sacco di
recupero e andiamo via senza fare rumore, il più velocemente possibile.
In questa fredda mattinata finiamo di visitare Bergen, iniziando con la
chiesa di San Giovanni, rossa e fiera costruzione in pietra che si staglia
in fondo ad un viale in pendenza, dove sono parcheggiate delle macchine
talmente inclinate da stupirsi che non rotolino giù per la forza di gravità.
La chiesa è altissima, di forma appuntita, con le guglie verdi e
l'onnipresente arco a sesto acuto tipicamente gotico, il mio stile di
costruzione preferito. Purtroppo è il suo giorno settimanale di chiusura, da
cui non possiamo entrare nemmeno in questa. Dopo questa piccola interruzione
nei numerosi aiuti finora fornitici dalla dea bendata, ci facciamo un altro
giretto nella zona più elevata della città, per fermarci poi di fronte ad
uno stagno pieno di anatre e ninfee, divertendoci ad osservarle mentre
galleggiano beate in acqua senza alcuna preoccupazione. Loro non devono
pensare a dove dormire l'indomani, né ai posti da prenotare in ostello, né
alle coincidenze perse, tutte cose con cui noi abbiamo a che fare quasi
quotidianamente da una settimana, abbastanza stressanti perchè non finiscono
mai, ma allo stesso momento eccitanti e coinvolgenti. Tutto ciò trasuda un
fantastico spirito d'avventura e di piacevole precarietà. Ormai ci manca
poco a lasciare questa affascinante città, da cui ritorniamo alla stazione
ad attendere ancora per qualche ora il treno che ci riporterà ad Oslo, per
poi prendere la coincidenza per Trondheim.
Ci sediamo sulle non troppo comode panchine di legno della stazione, in
paziente attesa. Ognuno è immerso nei propri pensieri, osservando nel
frattempo i pochi treni che la stazione può contenere mentre arrivano e
ripartono, dopo che le inservienti li hanno lustrati da cima a fondo per non
lasciare i passeggeri seguenti sguazzare nella (poca) sporcizia lasciata dai
precedenti. Osserviamo la gente che si muove senza sosta da una piattaforma
all'altra, tutti che posano una parte della loro vita sulle fredde pietre
del pavimento della stazione, erodendo impercettibilmente quel suolo così
vissuto. Anche noi ora siamo parte di tutto questo, orgogliosi di poter dare
il nostro contributo a questo eterno viavai. Lo spirito di chi ama viaggiare
si nutre di questi momenti: anche l'apparente noia delle ore passate ad
aspettare il treno in silenzio ha il suo fascino. Lascia tutto il tempo per
pensare, per riflettere, per fantasticare su quella che sarà la prossima
meta, su come sarà il prossimo treno su cui salirai, su quante cose ti
rimangono ancora da vedere e su come il tempo piano piano stia passando e
stia divorando una tappa dietro l'altra, lasciandoti a bocca aperta per
quanto passa velocemente. Sembra così lunga una vacanza quando si è
all'inizio, magari anche scoraggiante per le risorse mentali e fisiche che
ti richiederà, poi un giorno ti svegli ed è già finita, e questo è un
mistero che temo non potremo comprendere mai pienamente. Ma la vacanza ora è
tutto meno che finita, è ancora tutta da vivere, e questo è meraviglioso.
Non posso fare a meno di ringraziare non so chi per avermi dato la
possibilità di essere qui ora, con il corpo e la mente sani, cosa che troppo
spesso diamo per scontata ma sulla quale purtroppo non abbiamo mai certezza.
Mentre ci immergiamo nei meandri della nostra mente, che nessun altro oltre
a noi stessi potrà mai indagare e conoscere, ci pensa un'ape a risvegliarci
e a riportarci nel mondo reale: infatti ha appena punto l'orecchio di
Davide, nonostante lui non abbia fatto il benchè minimo movimento che
potesse anche solo lontanamente innervosirla. Sappiamo che è un ape poichè
il pungiglione, ancora infisso nella carne molle del padiglione auricolare,
si è trascinato dietro anche le interiora del temerario insetto. Ha punto
sapendo di morire poco dopo, scardinandosi l'addome a differenza della ben
più cattiva vespa che punge più e più volte senza timore di uccidersi. La
zona offesa diventa subito gonfia e dolorante, ci vorrebbe del ghiaccio, ma
non abbiamo granchè sottomano. L'unica idea che mi viene è di usare la
confezione metallica degli sgombri al pomodoro, da mettere sull'orecchio per
alleviare dolore e gonfiore. Non è propriamente un metodo scientifico, ma
funziona! Dopodichè facciamo quattro passi per calmare le acque agitate
dalla spiacevole puntura e per rinfrescare la parte dolorante con un po' di
vento, passando per delle vie ancora non battute in cui però non troviamo
nulla di interessante. Poco prima che il treno si presenti al capolinea
recuperiamo i bagagli dagli indistruttibili cassetti metallici e ci troviamo
a lottare ancora una volta con la massiccia presenza di vespe assassine che
sembra proprio ce l'abbiano con noi e solamente con noi. Riusciamo a
scacciarle solo dopo numerose sventolate di berretti e di mani, che a
ripensarci probabilmente non facevano altro che innervosirle di più.
Finalmente il treno arriva e ci porta via dalla stazione, liberandoci dal
tormento di questi fastidiosi insetti, mai così aggressivi come in questi
ultimi giorni.
Notte in treno
Ci aspettano sedici ore complessive da passare in carrozza, spezzate solo
dal breve cambio che dovremo fare poco prima della mezzanotte. Dobbiamo
ripercorrere lo stesso tratto di ieri fino a Myrdal, per poi ridiscendere
verso la fermata di Hønefoss, nella quale cambieremo treno e risaliremo con
il diretto per Trondheim. Purtroppo non esistono collegamenti ferroviari
diretti tra Bergen e Trondheim, che ci farebbero guadagnare quasi una
giornata. Lungo la strada vediamo ancora tante impetuose cascate, un
violento temporale seguito da uno stupendo arcobaleno che taglia in due le
montagne rocciose ed irregolari, altro regalo di una natura veramente
generosa nei nostri confronti. Forse è segretamente sensibile al nostro
ardente desiderio di vedere le meraviglie che riesce a creare gratuitamente,
ed è disposta a regalarci un po' della sua ricchezza. La vista
dell'arcobaleno fa dimenticare per un attimo tutti i timori, il dolore per
la puntura e la noia del lungo viaggio.
Siamo un po' preoccupati per la coincidenza che dovremo prendere ad Oslo,
dato che il treno ha più di mezz'ora di ritardo, probabilmente dovuta ad un
guasto: ma ancora una volta non dobbiamo preoccuparci troppo. Sfrecciando
velocemente e senza mai fermarsi, questa scatola di latta semovente recupera
totalmente i minuti perduti, e l'apprensione svanisce presto quando teniamo
saldamente in pugno i biglietti per Trondheim, mentre la coincidenza
arriverà a minuti. Controllando meglio i biglietti, per un provvidenziale
scrupolo di pignoleria di Davide, ci accorgiamo però che segnano un orario
sbagliato! Tra le scuse del commesso ci vengono cambiati immediatamente, e
per fortuna che ce ne siamo accorti in tempo! Il treno è ormai prossimo alla
stazione, da cui ci portiamo velocemente sul binario 4. Dalla fretta di
salire sbagliamo la carrozza, entrando in quella dei vagoni cuccetta: ci
troviamo a dover scavalcare precipitosamente tutti i numerosi passeggeri,
muniti di borsoni grandi quanto i nostri, che stanno salendo dietro di noi.
Per raggiungere la carrozza giusta non c'è altro modo, non essendoci in quel
vagone alcun collegamento diretto con le carrozze normali. Liberatici dalla
folla dopo non pochi sforzi e contorsioni negli stretti passaggi dei vagoni,
riprendiamo la via per il nostro vagone che è proprio in fondo al treno,
trovando ancora i gentili regali per aiutarci a dormire meglio. Mi sono
preparato al peggio dopo la precedente esperienza di notte dormita (?) in
treno, infatti stavolta non voglio nemmeno tentare di addormentarmi, vada
come vada: se dormo va bene, altrimenti preferisco rimanere sveglio,
tollererei di più una notte completamente in bianco piuttosto di una dormita
pochissimo e malissimo. Effettivamente, non va granchè bene nemmeno
stavolta: dormo complessivamente solo un'ora,dalle sei alle sette di
mattina. Già meglio di niente, in ogni caso. Inoltre, restare sveglio mi
offre ancora una volta una cospicua ricompensa: intorno alle cinque e mezza,
mentre il mio compagno è tranquillamente appisolato, assisto ad una
spettacolare alba, con le sue luci e i suoi colori che mi lasciano ancora
una volta a bocca aperta mentre il treno prosegue spedito tra i monti,
indifferente a quella meraviglia.
Trondheim
Poco prima dell'arrivo alla stazione di Trondheim ci risvegliamo piuttosto
rimbecilliti e con ben poca voglia di passare un'altra giornata a girare per
una città, ma dobbiamo farcela lo stesso. A Trondheim abbiamo intenzione di
dedicare solo una giornata, prima di ripartire alla volta di Bodø. Arriviamo
in stazione verso le sette e mezza, con la luce del sole ormai piuttosto
forte. Il clima è molto più rigido ora, è assolutamente necessario mettersi
su anche il secondo maglione e la giacca. Il cambiamento di temperatura così
repentino ci stupisce, ma siamo pur sempre un bel pezzo più a nord di prima,
ed è mattina presto. Frugando nello zaino mi accorgo anche che il boccettone
di sapone liquido si è rotto e sta impiastricciando tutto, da cui lo butto
via imprecando, liberandomi di un buon mezzo chilo di peso.
Non abbiamo molta fretta di gettarci nell'esplorazione della città, da cui
tento di dormire ancora un po' non appena individuo una delle poche panchine
completamente sgombre nella stazione. Il mio tentativo però non va a buon
fine: la panca è troppo rigida e i miei cicli circadiani sono troppo
scombussolati per riuscire a prendere sonno, e anche se ci riuscissi
probabilmente dormirei solo pochi minuti svegliandomi ancora più imbesuito
di come sono ora. Così desisto e mi accorgo della mia vescica decisamente
tesa: la sorpresa è che i bagni della stazione sono a pagamento. L'ingresso
costa cinque corone. Fortunatamente però riesco ad approfittare delle
circostanze e ad entrare gratis quando l'uomo delle pulizie apre la porta
dall'interno, proprio mentre sto ispezionando la serratura della porta
cercando un modo di eludere il sistema di blocco automatico. Vede la mia
espressione un po' spaesata, con i capelli ancora completamente arruffati e
gli occhi iniettati di sangue, e subito mi dice con fare rassicurante e
quasi paterno che quello è il bagno, sì proprio quello, posso entrare...di
sicuro non posso rifiutare l'offerta! Sono d'accordo sul fatto che pagando
più tasse i nordici si assicurino i migliori servizi, in fede alla loro
filosofia "dalla culla alla tomba", ma sborsare denaro perfino per andare a
fare pipì mi sembra veramente eccessivo, è quasi crudele. Eppure, la maggior
parte delle toilette delle stazioni e dei centri commerciali nordici è a
pagamento. In alcuni si paga direttamente all'entrata, in altri solo se si
deve usare la tazza, mentre gli orinatoi sono gratis: è tragicomico vedere
tutte le file di bagni con la porta chiusa da un robustissimo lucchetto.
Chiusa la parentesi toilette, facciamo una veloce colazione con quello che
c'è rimasto tra succhi di frutta e biscotti, giusto quel tanto che basta per
darci la forza di uscire dalla stazione e cominciare a camminare senza
subire altri attacchi intestinali, il resto verrà da sé appena preso il
ritmo giusto.
La prima tappa è la stupenda cattedrale di Trondheim, di nome Nidarosdomen:
è la più grande della nazione e considerata spesso come la più bella di
tutta la Norvegia. Effettivamente, è splendida: di stile romanico-gotico,
enorme e maestosa all'esterno con le sue svettanti guglie e le decine di
statue in fila che ti osservano dall'alto. All'interno è ancor più
magnificente, con il suo rosone di vetro sapientemente colorato che è una
delizia per gli occhi, tutto in spazi enormi che avranno richiesto un lavoro
titanico coronato da decenni di sudore e devota tenacia per essere
completato. All'interno c'è quello che sembra un set per girare un film:
apprendiamo presto che si sta preparando una grande recita tradizionale in
nome di una ricorrenza storica della città che cade proprio oggi. Due attori
vestiti in abiti tradizionali stanno incrociando le loro spade di legno con
disinvoltura, provando e riprovando finchè le loro mosse non saranno
perfette. Dopo averli osservati per un po', e capendo che la recita inizierà
solo tra diverse ore, usciamo dalla grande cattedrale per una giusta pausa
di riposo atta a rifocillarci, assediati ora dalla fame e soprattutto dalle
vespe che non ne vogliono sapere di lasciarci in pace ovunque andiamo. Un
breve spuntino, dopodichè un giretto in centro, anche qui pieno di vita: c'è
una fiera medioevale completa di bancarelle (strano!), suonatori ambulanti
di viola, perfino un giovane fabbro che sta dando una dimostrazione di come
si forgia una spada. La batte infinite volte col martello per rimuovere più
impurità possibili, per poi metterla a raffreddare in acqua producendo la
classica fumata bianca che si sprigiona dalla punta arroventata e luminosa.
Quando la punta tocca con troppa violenza una superficie esplode in
centinaia di piccole scintille che vanno a spegnersi spontaneamente
nell'aria senza più lasciare traccia. Piena tradizione norvegese che si
assimila attraverso i sensi, col clangore ossessionante del martello sul
coriaceo metallo che stanca le delicate ossa dell'orecchio, l'odore del
pesce fresco che stuzzica insistentemente i recettori olfattivi presto
saturati, la vista di tutte le cose nuove che stiamo imparando su questo
straordinario e fiero popolo. Dopo la mostra visitiamo la fortezza della
città, che dalla sua posizione sopraelevata domina tutto il paesaggio
sottostante. Uno stretto sentiero in mezzo a dei verdi boschetti ci porta in
uno spiazzo erboso molto ampio che circonda il vecchio castello; entro le
spesse mura troviamo ancora cannoni ornamentali, ammassi di roccia,
strapiombi senza protezioni e qualche panchina su cui sedersi ad ammirare
l'intera città dall'alto, con il mare e le onnipresenti montagne sullo
sfondo. Tornando indietro, in fondo ad una discesa notiamo un congegno a dir
poco insolito: è una specie di binario metallico che percorre tutto il
dislivello, sembra un montascale. Scopriamo subito dal cartello indicativo
di cosa si tratta: è un montacarichi per le biciclette! Si incastrano nei
supporti e il macchinario le porta fino in cima alla salita, per non
doversela fare in sella a morire di fatica. Geniale!
Tocca ora al quartiere pescatori, molto simile al Bryggen, con due file di
case bianche, rosse, azzurre, gialle e verdi che si estendono a perdita
d'occhio. Ce n'è anche qualcuna più rustica senza vernice, tutte si ergono
su palafitte immerse nell'acqua che separa i due filari, visibili in tutta
la loro bellezza dal rosso ponte che unisce i due lati. Un altro esempio
perfetto di pura tradizione nordica!
Apatia
La stanchezza della pesante nottata comincia a farsi sentire
prepotentemente, stiamo iniziando a trascinarci piuttosto che a camminare, e
ciò sfocia in un brutto momento di noia ed apatia. Forse è anche il pensiero
dell'ennesima notte in treno che ci aspetta proprio questa sera per
raggiungere Bodø, a rendere così pesante la fatica. Tutta questione di
psicologia, probabilmente: l'ultimo giorno di lavoro della settimana si
sopporta meglio del primo, sapendo che gli seguirà il fine settimana. Per
riprendersi è sufficiente scavare un po' più a fondo dentro di sè per
ritrovare la motivazione e le risorse necessarie ad andare avanti: poco alla
volta, dopo una sosta in stazione per riprendere fiato e colore, in cui
cerco nuovamente di dormire su quelle rigidissime panche di metallo ma senza
successo, ci riprendiamo in parte dalla condizione di passività. Aspettiamo
ora con rinnovata fiducia il treno per Bodø, tappa che mio padre fece nel
lontano 1971 per vedere il surreale eppur reale spettacolo del sole di
mezzanotte, quando fece tutto il giro della Norvegia come noi, ridiscendendo
poi dalla Svezia fino a completare il percorso in Danimarca. Non potremo
vedere il sole vero e proprio, con nostro grande rammarico: la stagione è
già troppo inoltrata. Non ci muoviamo più dalla panca della stazione,
preferiamo risparmiare il più possibile le energie residue per la giornata
di domani, che sarà altrettanto impegnativa. Il tempo lo passiamo come
possiamo, un po' nella noia e un po' tentando qualche argomento di
conversazione per tenerci svegli. Osserviamo il modellino di plastica
rappresentante la linea tranviaria locale, un tempo funzionante ed attivato
da un bottone, ora solamente ornamentale. Il mio compare si diverte a
interrogarmi sulle tecniche di lavorazione che ha subito il portalampada
della stazione prima di essere installato sopra la nostra panchina: sarà
stato tornito, fresato o chissà cos'altro? E i suoi bulloni saranno stati
maschiati a dovere?
Mentre rispondo alle domande, un po' arrampicandomi sugli specchi, un po'
ragionando, passa un anziano signore dall'aspetto decisamente trasandato e
decrepito, vestito da custode della stazione ma non certamente in grado di
svolgere questo lavoro: infatti è incassato in una motoretta per
handicappati che lo circonda da ogni lato. Tale mezzo si muove molto
lentamente sulle quattro piccole ruote, continua ad andare avanti ed
indietro senza sosta, non si capisce proprio dove voglia andare. Alla fine
il tizio decide di andarsene, uscendo dalle porte ad apertura automatica, e
tardando troppo a uscire dal raggio d'azione: SBAM! Le porte si sono chiuse
contro la macchinetta, fortunatamente non fracassandola. Poi sparisce nel
nulla, sempre lentamente. La curiosità verso quest'uomo così strano scema
progressivamente, fino a svanire.
Ormai si sta facendo sera e di lì a breve arriverà il nostro treno: mi
attende un'altra notte in bianco? Questa volta no: nonostante stavolta non
ci diano nè coperte nè mascherine nè tappi per le orecchie, dormiamo quasi
normalmente. Io addirittura raggiungo le tre o forse quattro ore di sonno,
poche in assoluto ma tantissime in proporzione, in ogni caso sufficienti ad
un degno recupero di energie. Questo nonostante la presenza di due cani e
due neonati nel vagone, i primi che contrariamente alle aspettative non si
fanno sentire nemmeno con un verso per tutta la notte, i secondi che urlano
spesso e volentieri, con i genitori che invece di farli smettere li
incoraggiano, o almeno così ci sembra. In ogni caso non si danno molta pena
a farli tacere, da perfetti maleducati.
Queste quattro orette dormite, probabilmente favorite dal sedile molto più
reclinabile all'indietro dei precedenti, mi salvano la vita e rigenerano un
po' lo spirito, non credo che avrei sopportato un'altra notte quasi
totalmente in bianco. L'indomani dovremo essere svegli e ricettivi al
massimo, per prendere al volo il traghetto per le conosciute isole Lofoten.
Bodø sarà solo una stazione di passaggio, non essendo un luogo di attrazione
turistica se non fosse che è una delle posizioni migliori per vedere il sole
di mezzanotte, sul quale ha costruito la propria fortuna. La luce notturna
che si intravede intorno alle tre e mezza, in un momento di veglia
temporanea, mi regala altri momenti indimenticabili di meraviglia e
ammirazione.
Bodø
Le foreste sterminate nei pressi di Bodø sono lo scenario che ci appare
davanti agli occhi la mattina prestissimo, quando ci destiamo con largo
anticipo per essere pronti a scattare verso il porto non appena messo piede
a terra. Il treno supera silenziosamente il limite del Circolo Polare
Artico, senza che ciò venga annunciato da alcun altoparlante, rispettoso del
sonno dei viaggiatori: siamo ora nella magica terra del sole di mezzanotte e
della notte polare. Superare questo confine invisibile riempie di
soggezione: essere oltre un Circolo Polare è un po' come trovarsi in un
mondo diverso. Qui si trovano gli ultimi avamposti umani prima delle gelide
terre polari, e raggiungerli è un'altra emozione fantastica.
Ancora non siamo arrivati a Bodø, però. Non conosciamo nulla di questa città
nè dell'ubicazione della sua stazione navale. Andiamo perciò praticamente
alla cieca, sperando di prendere il traghetto della mattina, o ci toccherà
quello del primo pomeriggio, che ci farebbe perdere un sacco di tempo
inutilmente, bloccati in una cittadina dove non c'è veramente niente da
vedere nè da fare. Oltretutto siamo in ritardo di quasi un'ora rispetto agli
orari previsti, stavolta non recuperata: quell'ora fa sì che arriviamo
proprio in coincidenza con l'orario teorico di partenza del traghetto.
Mentre il treno si sta lentamente arrestando al capolinea assoluto delle
ferrovie norvegesi, noi siamo già pronti con gli zaini in spalla, allacciati
sotto la vita per scaricare meglio il peso sui forti muscoli lombari.
L'adrenalina è già in corpo a dosi massicce, sapendo che abbiamo solo pochi
minuti per arrivare in tempo: non sentiamo nemmeno il freddo pungente della
mattina artica. Appena scesi non perdiamo un secondo: chieste il più
velocemente possibile alcune informazioni alla ragazza che vende i biglietti
in stazione, ci dirigiamo speditamente nella direzione da lei indicata e
intravedo in lontananza dell'acqua, dunque lì da qualche parte ci deve
essere il porto. Una volta arrivati in zona però non vediamo in giro anima
viva, c'è soltanto un singolo traghetto attraccato in lontananza che sembra
in procinto di partire, ma non ha scritto niente sulle sue fiancate o da
altre parti, da cui non possiamo sapere dove sia diretto. Per giunta non c'è
nemmeno l'accenno di una biglietteria, la situazione si sta facendo critica.
Rischiando di farci investire dalle automobili che passano veloci lungo il
curvone, attraversiamo la strada e troviamo casualmente due ragazzi in
motocicletta fermi davanti alla barca, unici esseri umani nel raggio di un
chilometro quadrato, che stanno aspettando di salire con il loro mezzo. Gli
chiediamo dove possiamo fare i biglietti, loro rispondono indicandoci
vagamente una zona di costruzioni distante circa un centinaio di metri, al
che corriamo ancora più veloci per fare questi fantomatici biglietti. La
cintura dei pantaloni non tiene e quasi mi cadono a terra mentre aumento
sempre di più la velocità, compatibilmente con il mio fiato. Arriviamo
trafelati in questo complesso di baracche bianche con il tetto grigio,
adibite a bar e servizi igienici, ma di biglietterie nemmeno un'ombra
sbiadita. Ormai disperati, torniamo altrettanto velocemente al traghetto
ormeggiato, sperando di poter fare i biglietti direttamente a bordo. Questo
sempre ammettendo che tale nave sia effettivamente diretta a Moskenes, il
paesino a sud dell'arcipelago Lofoten: magari il nostro traghetto è già
partito da un pezzo e stiamo correndo tanto per niente. La moto dei due
ragazzi si è appena accesa e sta entrando nel vano veicoli: il controllore
sta per chiudere il passaggio. Riusciamo ad entrare per un pelo e a fare i
due biglietti direttamente davanti al controllore, dopo aver ricevuto la
conferma che la destinazione è la nostra. Mentre stiamo ancora cercando le
monetine di calibro più piccolo per pagare esattamente la cifra dovuta, la
piattaforma di metallo si rialza velocemente e chiude l'entrata a qualsiasi
altra persona o veicolo che voglia salire.
Isole Lofoten in vista
Ancora totalmente increduli per essere veramente riusciti a prendere il
traghetto, troviamo i primi posti a sedere disponibili e ci lasciamo cadere
quasi a peso morto sulla morbida tela violacea che li ricopre, con gli zaini
ancora allacciati in ogni punto. Col fiatone che non è ancora passato, ci
guardiamo con aria stralunata ma indescrivibilmente felice: non so come
avremmo potuto reagire vedendo il traghetto partire senza di noi proprio
sotto gli occhi, condannandoci a cinque ore di inutile attesa. Il computer
di bordo sopra le nostre teste ci informa che la traversata durerà in totale
un paio d'ore: sullo schermo appare di tutto, la velocità della nave, quella
del vento e la direzione in cui spira, la posizione sulla carta geografica
che stiamo occupando, la forma dell'itinerario percorso. Anche qui v'è la
striscia colorata che si allunga mano a mano che la nave prosegue nella sua
traversata. Inizialmente non mi accorgo nemmeno che siamo in movimento, sono
troppo concentrato sul colpo di fortuna assurdo che ci è appena capitato.
Quando Davide esce per fare delle riprese con la videocamera io non ho
nemmeno la forza di alzarmi per seguirlo, sono ancora scosso e preferisco
rimanere seduto a lasciare scaricare l'adrenalina spontaneamente, con le
gambe che mi tremano ancora leggermente. Un po' di succo di frutta toglie
l'aridità della gola e la barretta di cioccolato mi ridà forza, fino a che
mi avventuro fuori anch'io: solo ora dopo parecchi minuti mi accorgo che
Bodø si sta allontanando e le creste rocciose delle Lofoten si avvicinano.
Il forte vento mi convince presto a rientrare, per ora ho solo voglia di
starmene tranquillo e rilassato in un ambiente caldo finchè non mi sarò
completamente rimesso in sesto. Quando però le isole sono vicine, non posso
esimermi dal tornar fuori a vederle: sono veramente uno spettacolo unico.
Già da lontano si nota che le montagne hanno qualcosa di strano, insolito
per un'isola come siamo abituati a vederle: sembrano dei grossi denti che
spuntano direttamente dall'acqua, in gran parte irregolarmente frastagliati
ed aguzzi, e quasi tutti piegati in un' unica direzione. Come se ci fosse un
dente del giudizio che li costringe a spostarsi lateralmente accalcandoli
gli uni contro gli altri, oppure una strana forza gravitazionale invisibile
sopra l'isola che attira irresistibilmente le cime delle montagne tutte da
una parte. Ci avvicinamo sempre di più al punto di attracco per la nostra
nave, osservando molto intensamente queste strane rocce e il paesino che sta
ai loro piedi: è il tempo di visitare il paese delle meraviglie.
Moskenes
Questo villaggio nella punta meridionale delle isole è il nostro punto di
arrivo, e non appena messo piede a terra lo sbalordimento non fa che
aumentare: la tipologia di montagna è identica alle Dolomiti dall'altezza di
circa duemila metri in su, esclusivamente erbose e totalmente spoglie di
vegetazione arborea o anche arbustiva, direttamente stagliate sull'oceano
senza terreni a fare da divisorio, tutte così curiosamente inclinate.
Moskenes è un borgo turistico piccolissimo ed insignificante, ma dispone di
un ottimo ufficio turistico: per queste isolette dimenticate dal mondo, la
pesca ma soprattutto il turismo significano tutto per il sostentamento.
Apprendiamo che presto passerà un pullman che ci porterà ad Å, il paese
monolettera che è un po' il punto di riferimento delle Lofoten meridionali.
Ancora con gli occhi non abituati a questo ben poco comune panorama
insulare, ci sediamo pazientemente ad aspettare questo fantomatico bus, ma
non si vede nulla arrivare. Siamo in pochissimi, la zona è di un silenzio
quasi totale, rotto solo dai rari commenti dei pochi turisti. Diverse
automobili sono ferme aspettando di entrare nel prossimo traghetto che le
riporterà sulla terraferma, ma nulla si muove. Dopo qualche minuto arriva da
lontano un anonimo furgoncino che supera la piccola chiesetta bianca del
paese, passa oltre a noi senza fermarsi e parcheggia dietro il centro
informazioni, sparendo dalla nostra vista. Non ci facciamo molto caso,
finchè Davide avanza un'ipotesi audace: non sarà quello il nostro pullman?
Presi dalla curiosità andiamo a controllare, e l'intuizione si rivela
azzeccata: grande poco più di un furgoncino dei gelati ambulante, conta solo
quattordici posti a sedere. Questo è il mezzo che ci porterà fino ad Å, in
soli dieci minuti di strada.
Verso Å
Saliamo divertiti su questo trabiccolo un po' malandato ma onesto, per
goderci dieci minuti di strada assolutamente indimenticabili: lo spettacolo
che offrono queste isolette è impareggiabile, si conquista immediatamente il
primato di posto più bello al mondo che ho visitato finora, e ce ne vorrà
prima che qualche altro lo superi. Semplicemente meravigliose. Ovunque ci
giriamo ci sono baie, casette rosse su palafitte o incastrate in mezzo alle
rocce costiere: su tali rocce cresce solo della fragile erbetta o qualche
raro arbusto abbarbicato su se stesso e piantato saldamente nella poca terra
presente. Ci sono innumerevoli barchette da pesca ormeggiate sotto le case,
cespugli di fiori circondati da piccoli laghetti, golfi che penetrano fin
nei villaggi grazie a strettissime aperture nelle coste rocciose, montagne
di nuda roccia appuntite e arzigogolate che ci sovrastano incastonandosi
perfettamente con la geometria dei villaggi e strapiombando sull'oceano
immenso, un paesaggio che sembra uscito dalla penna del più fantasioso
scrittore di favole mai esistito a questo mondo. I quadri nel museo di Oslo
non erano semplice fantasia!
Il villaggio di Å è altrettanto meraviglioso: conta circa un centinaio di
abitanti ed è quanto di più appartato e rustico si possa pensare. Questo
vecchio e fiero borgo di casette rosse dai tetti grigi, abitate da pescatori
e innumerevoli gabbiani, resiste al passare del tempo senza abbandonare le
sue tradizioni nè un briciolo della sua piccola ma significativa storia. Ciò
non toglie che gli abitanti si concedano qualche modernità: l'accesso ad
Internet è arrivato anche in questo paesino sperduto. Ogni singolo angolo di
strada è veramente pittoresco: c'è un unico negozio di alimentari in legno
bianco, che utilizza ancora il vecchio metodo delle etichette arancioni
incollate con scritto sopra il prezzo delle merci; anche il registratore di
cassa è manuale. Un solitario ristorante si affaccia direttamente sul mare
in una posizione strategica, circondato da baracche di legno che fungono da
officine attrezzi ormai trasformate in musei, il tutto condito da dei
tralicci di legno sparsi per tutta l'isola, usati da secoli per appendere
gli stoccafissi a seccare durante i mesi primaverili e per far asciugare le
reti da pesca al sole. Ancora piacevolmente frastornati dall'impatto con
questo ridente paesino, troviamo immediatamente l'ostello: il paese è così
piccolo che è impossibile avere problemi di orientamento. All'ufficio
turistico, anche qui presente e funzionante, non ci danno la piantina del
paese, bensì direttamente una fotografia scattata da poche decine di metri
di altezza e che basta a comprendere in un colpo solo tutto quello che c'è
da vedere.
Alloggeremo in un carinissimo rettangolino di legno con quattro letti
singoli, dalle finestrelle quadrate, molto piccolo e spartano ma così
accogliente e pittoresco da far venire voglia di viverci. C'è anche una
stufetta elettrica in vecchissimo stile che sta fuori dalla porta della
camera pronta ad essere usata in caso di necessità. Sorprendentemente non
c'è quasi polvere sui pavimenti nè sulle suppellettili, un ottimo regalo per
noi allergici agli acari. La camera è ancora completamente libera, ma
dovremo aspettare la sera per scoprire se qualcuno abbia prenotato anche gli
altri due letti. Ci concediamo un'ottima birra comprata all'alimentari di
fianco, questa volta senza lucchetti nè limitazioni di alcun genere,
gustandocela in ogni sorso come simbolo di nuovamente ritrovata libertà.
Un centinaio di chilometri sopra il Circolo Polare Artico, ora siamo proprio
in un altro mondo.
Le botteghe
Non possiamo assolutamente non esplorare ogni angolo del paese, e cominciamo
subito dopo aver bevuto l'ultimo sorso di birra: una mezzoretta prima che
chiudano riusciamo a visitare tutti i musei del posto, se così si possono
chiamare viste le loro dimensioni. Ognuno in passato era adibito a una
funzione diversa: la casa del pescatore è talmente piccola che si fa fatica
a muoversi, le scale sono conformate nel modo usuale ma sono talmente ripide
da risultare quasi verticali, come una scala a pioli. I soffitti sono
bassissimi per una persona di normale statura, figuriamoci per i nordici che
sono notoriamente più alti di noi. Tutto rispecchia pienamente la dura vita
dei pescatori, abituati alle poche comodità e al molto lavoro. Su ogni
comodino si trovano soprammobili di porcellana, vecchissimi vasi di ceramica
e molte fotografie ricordo; sul tavolo della minuscola cucina sono allineate
diverse impolverate bottiglie di vino, da annusare solamente, ognuna con il
suo aroma peculiare. La tentazione di rimanere ad abitare per un po' in
questi piccoli gioiellini dismessi e provare com'era la vita dei pescatori è
veramente forte, ma dobbiamo accontentarci della camera del nostro ostello.
La prossima stamberga è la rimessa delle imbarcazioni e degli attrezzi da
pesca, tutti abbondantemente arrugginiti ma che meritano rispetto per tutto
il pesce che hanno estratto dal mare durante la loro vita lavorativa. Sempre
qui si trovano delle impressionanti ed autentiche ossa di animali acquatici,
in particolare una vertebra di balena: è identica per forma a quelle umane,
e grossa come un televisore di medie dimensioni! Impressionante! Sapevo che
la balena può raggiungere e talvolta superare i trenta metri di lunghezza,
ma vedere di persona una sua parte, grossa almeno cinquanta volte la
corrispondente umana, è tutt'altra cosa!
Tocca ora alla fabbrica di olio di fegato di merluzzo, la più antica
dell'intera Europa: le capsule che ingoiamo oggi per ridurre la
colesterolemia arrivano da posti come questi. A pensarci è strano: fa capire
come tutto il mondo sia collegato insieme da una rete invisibile di cui
purtroppo spesso non ci rendiamo nemmeno conto, credendo di bastare a noi
stessi e di non aver bisogno di niente altro, di nessun altra cultura
diversa dalla nostra, mentre ogni singola parte del mondo è importante per
dare il suo contributo al massiccio e poliedrico ingranaggio della vita.
Poco distante c'è la vecchia fucina del fabbro, con le sue morse arrugginite
ma ancora funzionanti, i suoi utensili di ogni forma e dimensione, dove si
fabbricavano gli strani coltelli per sventrare i pesci e le lampade ad olio
indispensabili per illuminare con la loro luce fioca le abitazioni nei duri
mesi invernali. Infine il panificio, cosa per noi banale essendo abituati ad
averlo sotto casa, ma che alle isole Lofoten era un importantissimo punto di
riferimento per l'intero paese, una pietra d'angolo. Il suo enorme forno
annerito tace, ma chissà quanta farina ed acqua saranno finiti in quella
piccola grotta rovente, e chissà come era buono il pane fatto qui. Questa
era la vita che si faceva ad Å: semplice, tranquilla, di pochissime pretese
e altrettante poche aspettative, atta solo a guadagnarsi da vivere
onestamente e con dignità senza dare fastidio a nessuno, e soprattutto senza
distruggere l'ambiente. Una vita che può apparire invidiabile o detestabile,
ma indiscutibilmente autentica. Se penso che anche questi gioiellini di
isolette fuori dal mondo sono state coinvolte loro malgrado nella seconda
guerra mondiale, in cui l'unico obiettivo era distruggere il più possibile
per accaparrarsi una supremazia territoriale ed economica, mi chiedo
veramente a che livello possa arrivare l'idiozia di alcuni esseri umani,
sempre che si possano definire propriamente tali e non si meritino
l'appellativo di subumani o più semplicemente bestie.
Come coronamento finale tentiamo anche una veloce visita al museo dello
stoccafisso, vero motore dell'economia locale: il pesce viene periodicamente
esportato nel Vicentino dalle intere isole Lofoten grazie ad un gemellaggio
collettivo che garantisce continui scambi sia commerciali che culturali. In
quel di Vicenza lo stoccafisso viene poi cucinato con la ricetta locale,
alla Festa del Baccalà. Appena entrati nel museo, troneggia sulla parete un
cartello che recita orgogliosamente "Noi parliamo italiano!". Entriamo quasi
sbattendo la testa contro un enorme merluzzo appeso al soffitto sviscerato
ed essiccato, e prima di poter dare un'occhiata a qualcos'altro veniamo
informati che il museo sta chiudendo proprio ora. Abbiamo comunque visto
abbastanza da ritenerci soddisfatti, del resto come si può rimanere delusi
in un luogo simile?
Oceano
Esaurita la parte culturale, è il momento di dedicarsi a quella
naturalistica. La baia del paese è una porta aperta sull'immenso Oceano
Atlantico, che si estende coprendo completamente un territorio così
tremendamente esteso da far fatica a capacitarsene. Seduto sull'ultimo
spruzzo di roccia prima del mare, osservo l'orizzonte in uno stato di pace
mentale assoluta, che forse mai ho vissuto così intensamente: il mare piatto
quasi come una tavola mi distende completamente lo spirito ed elimina
qualsiasi brutto pensiero. Guardando il cielo sgombro mentre si fonde con
l'oceano all'orizzonte, mi sento quasi trasportato in quella zona con la
mente, mentre il corpo rimane fermo seduto sulla roccia. Il ritmico
alternarsi delle debolissime onde amplifica questa sensazione, provo
un'attrazione enorme per quella sconfinata distesa d'acqua. Non un rumore,
né tantomeno quello delle nostre voci, che stanno perfettamente zitte
lasciandoci ascoltare il silenzio della natura. Un silenzio assordante, da
far venire i brividi. Questo è quello per cui sono venuto qui, e ora che
l'ho raggiunto, non potrei desiderare di più. Quando mi riprendo
dall'estasi, decidiamo di salire sulle collinette di sassi e muschio che
sovrastano il borgo: da quella posizione potremo vedere tutto in modo ancora
più completo. In men che non si dica siamo in cima, e da lì possiamo goderci
una vista nuovamente emozionante. Davanti a noi il paesino che dà
sull'immenso Oceano Atlantico, alla nostra sinistra le imponenti montagne
che lasciano in ombra buona parte della zona, mentre sulla destra è appena
visibile un campeggio in riva al mare. Dietro di noi un verdognolo lago
circondato dai monti, sulle cui rive due persone stanno facendo campeggio
selvaggio in tenda, non senza suscitarci una punta d'invidia. E davanti a
noi, di nuovo, l'oceano. Il tempo è perfetto, il sole ancora abbastanza alto
nel cielo, possiamo concederci un'altra buona mezz'ora di rilassamento
totale e di meditazione. Quello che si pensa in questi momenti non si può
comunicare nelle pagine scritte di un diario. Quello che si può comunicare è
che quando capita di viverlo, si può solamente essere grati a Madre Natura!
Pavel
Torniamo in ostello già rimpiangendo gli stupendi momenti appena vissuti, e
vediamo che non c'è ancora nessuno in camera nostra: sembra quasi che ce
l'abbiamo fatta a rimanere soli. Ormai sono le dieci, non verrà più nessuno,
pensiamo. Sogni svaniti: dovremo condividere la stanza con un israeliano
ventiseienne di nome Pavel, che arriva poco dopo di noi e da subito si
rivela estremamente loquace, perfino invadente. Non la smette nemmeno per un
secondo di farci domande di ogni tipo, con fare quasi sospetto. Scopriamo
poco dopo che è intrufolato in ostello senza pagare, e sta usando il sacco a
pelo che è severamente proibito onde evitare infestazioni di pidocchi.
Facciamo finta di niente ed aspettiamo che esca, ma dopo poco il richiamo
serale di Å si fa sentire anche per noi: appena usciti dall'edificio
troviamo il nostro compare che ci invita ad una passeggiata (ma praticamente
ci costringe ad andare con lui!), ed inizia a raccontarci le sue imprese di
free climber, indicandoci la montagna di fronte a noi e sostenendo di essere
in grado di scalarla in venti minuti senza aiuti di alcuna sorta. Siamo
abbastanza scettici su questa sua ultima affermazione, nonostante il suo
fisico robusto e muscoloso parli chiaro, ma non lo diamo a vedere, facendo
solo una battuta scherzosa "Al massimo, duecento minuti!". Poi parte a
confrontare le temperature locali con quelle israeliane, spiegandoci che a
casa sua oggi sarebbe una giornata invernale. Finisce col parlare di tutti
gli italiani che ha incontrato negli ostelli che ha visitato finora, dicendo
di averne incontrati in ogni posto in cui si è fermato per dormire. Tutto
sommato è anche simpatico, ma parla decisamente troppo e non ci lascia il
tempo di replicare qualcosa senza partire con un altro argomento.
Continuiamo a camminare verso il promontorio, sono quasi le undici di sera
ma la luce è ancora praticamente diurna. Riusciamo perfino a fare qualche
fotografia al mare che incontra il cielo rosato, con qualche gabbiano
superstite che lancia il suo grido in mezzo al mare. La maggior parte di
loro si è ormai ritirata sotto i tetti delle rosse case, dove si raccolgono
a decine non smettendo un solo secondo di garrire. Beati loro che si godono
questa meraviglia tutto l'anno gratis. Un altro momento meditativo di grande
intensità: i colori del tramonto rendono ancora più bella la scena vissuta
nel pomeriggio, sto altrettanto zitto per assimilare il più possibile la
magia di quel momento, ma complici la logorrea di Pavel ed il sonno optiamo
tutti e due per andare a letto. Tornati in camera scopriamo che anche il
quarto posto è stato occupato, per giunta da un italiano, che dopo averci
salutato sparisce e non torna più fino a notte fonda. Il nostro Pavel ci
chiede informazioni su una linea ferroviaria, regalandoci in cambio
un'utilissima cartina che mostra tutti gli ostelli della Scandinavia,
inclusi alcuni di cui non avevamo mai sentito parlare nel nostro iter
informativo pre-viaggio. Quando il compare si stanca di farci domande
indiscrete e noiose possiamo finalmente dormire, pregustando già la giornata
successiva, che abbiamo già un'idea precisa di come passare.
In bicicletta
Svegliarsi in quella stanzetta di legno minuscola, con la luce del sole che
filtra timidamente dalle finestre chiuse solo con tendine semitrasparenti, è
presagio di una giornata grandiosa. Non approfittare delle rare giornate di
pieno sole, che queste piccole zolle di terra ci stanno offrendo così
generosamente, è quasi un delitto. Completiamo velocemente il trasferimento
di camera, necessario per problemi organizzativi: usciamo dalla porta giusto
in tempo per riuscire a sfuggire al logorroico Pavel che si sta svegliando
proprio ora. Il nuovo alloggio è molto più grande, ha il lavandino
incorporato e il bagno vicinissimo, ma i materassi sono praticamente
inesistenti: si tratta solo di strati di gommapiuma poco più spessi di
stuoie da spiaggia, cosicchè la schiena poggia quasi direttamente sulle dure
doghe, decisamente scomodo ma tutto sommato sopportabile. La camera è
quadrupla ma per ora siamo solo noi, magari almeno stavolta saremo graziati
e non avremo compagni di stanza logorroici. Ma a questo ci penseremo solo la
sera. Per la nostra giornata di esplorazioni l'ostello propone un servizio
di noleggio biciclette per ventiquattr'ore, più che sufficienti a farsi un
giro panoramico eccezionale. La parte sud delle Lofoten è infatti
indiscutibilmente la più attraente e la migliore da percorrere miglio dopo
miglio in sella ad una bicicletta. Al prezzo di poco più di venti euro, non
economico ma sicuramente sostenibile, ci aggiudichiamo i nostri mezzi: sono
delle scassate e apparentemente poco affidabili biciclette da città,
probabilmente con molte migliaia di chilometri alle spalle. Sembrano proprio
vecchie e malandate, ma non possiamo pretendere troppo, questo è quello che
abbiamo. E poi l'entusiasmo di girare per le isole in bici ci fa presto
dimenticare dei dettagli. Io non vado in bicicletta da parecchi anni e non
sono mai stato una cima del ciclismo, Davide è un po' più abituato a
pedalare ma anche lui a digiuno da qualche anno: stiamo tentando l'avventura
in condizioni di deciso sottoallenamento. Riprendiamo ad andare in bici
nell'ultimo posto al mondo che ci saremmo aspettati fino a poco tempo prima,
la situazione ha un che di paradossale.
La selezione dei mezzi è accurata: scartate le bici che frenano poco, quelle
con i cambi di velocità troppo arrugginiti o addirittura assenti, quelle
apparentemente un po' sbilanciate, non resta di meglio che due biciclette
costruite assemblando parti di altre bici diverse tra loro, come testimonia
il cambio di velocità la cui levetta segna ben sette rapporti, quando in
realtà le ruote dentate di cui dispongono sono solo due o tre. Partiamo
lentamente ancora ignari di ciò che ci aspetta, freschi di energie.ma per
poco. Le strade delle Lofoten, seppur ottimamente asfaltate e prive di
buche, sono estremamente tortuose, si tratta di saliscendi continui e
abbastanza ripidi, non durano molto ma per gambe non allenate sono
distruttivi. Ripercorrendo la strada che ci porta a Moskenes, rivediamo
ancora tutta la meravigliosa scena dell'andata: la differenza è che stavolta
stiamo soffrendo non poco, io in particolare, per far andare quei rottami
totalmente inadatti a un percorso simile su per queste salite che paiono
interminabili. Un attimo dopo si riprende velocità giù per discese, che però
finiscono quasi subito, lasciando ben poco riposo alle gambe. Il percorso è
veramente massacrante, un po' mi pento di aver spinto decisamente in
direzione della gita in bicicletta, ma presto mi convinco che non si poteva
non provarla, l'avremmo rimpianta troppo. Così stringo i denti e continuo a
faticare sulla bicicletta con la mia penosa andatura, maledicendo ogni
salita e benedicendo ogni discesa, consapevole che prima o poi arriverò ad
una qualche destinazione. Mi distraggo cercando di non pensare che sono su
una bicicletta, e in qualche modo continuo con la mia stentata pedalata.
La galleria
Nonostante la fatica e l'andatura a dir poco stentata, in men che non si
dica percorriamo i quattro chilometri e mezzo che ci separano da Moskenes,
il paese del nostro primo arrivo; ora è il momento di proseguire diritto
verso altre mete. Presto incontriamo una galleria lunga esattamente un
chilometro, come segnala il cartello posto all'entrata. A nessuno di noi è
mai capitato di percorrerne una in bici, ma la imbocchiamo senza pensarci
troppo a lungo. Le automobili che sfrecciano in galleria vengono
preannunciate da un rombo fragoroso, come se stesse atterrando un aereo di
linea proprio di fianco a noi, rombo che poi rivela quasi sempre una
semplice utilitaria lanciata a non più di sessanta chilometri l'ora. Un po'
di paura di sbandare per gli spostamenti d'aria dei mezzi che ci passano di
fianco c'è, visto anche il bordo della strada molto irregolare e ciottolato,
vicinissimo alla linea di margine della strada. Per fortuna non succede
alcun incidente ed usciamo indenni: quando rivediamo la luce del sole
abbiamo davanti un'altra scena mirabolante. Il mare è in un bagno di sole, e
davanti a noi è ben visibile l'aggraziato dosso di uno degli innumerevoli
ponti che collegano tra loro le decine di isolette. Nemmeno una nuvola
sparuta in cielo, e catene montuose sullo sfondo a perdita d'occhio, mostri
emersi direttamente dall'oceano. Trovare questo clima alle Lofoten, col mare
calmissimo, non è così comune. Ci accorgiamo solo ora della presenza di una
pista ciclabile, costruita apposta per non dover attraversare direttamente
la galleria con le biciclette. Ma tutto sommato ci siamo divertiti molto di
più a passarci in mezzo! Con rinfrancato spirito, prendiamo stavolta la
pista ciclabile e imbocchiamo il primo ponte sospeso, con la sua curva
sinuosa che aspetta solo di essere solcata.
Reine
Le isole sono unite tra loro in modo così apparentemente precario da
sembrare catene umane, tanto sono piccole: alcune sono niente più di scogli,
su cui i ponti fanno presa da un lato per poi ripartire dall'altra parte
delle rocce unendosi ad uno scoglio più grande, in uno spazio di poche
decine di metri quadrati. In lontananza, sul più grande di questi "scogli"
rocciosi, si vede chiaramente la cittadina di Reine. Solo in pochi punti c'è
qualche sparuta collinetta vagamente erbosa. Le biciclette scendono veloci
per l'inerzia della discesa permettendomi un breve riposo dopo la prolungata
salita per arrivare allo svincolo, e presto siamo in quest'altro borghetto
appena più grande di quello da cui proveniamo. Qui c'è un piccolo
supermercato, le strade sono decisamente più larghe e ci permettono un buon
margine di sicurezza per non farci investire dalle poche auto circolanti,
addirittura sono presenti degli sportelli bancomat! Dopo una breve sosta, su
una panchina isolata in mezzo a un ghiaioso cortile, ripartiamo alla volta
della prossima cittadina, di nome Hamnoy. Qui ci godiamo lo scenario più
bello dell'intero arcipelago! I ponti sono veramente suggestivi, alcuni sono
di cemento e hanno più campate, altri sono solo dei semplici ammassi di
roccia, levigata sulla cima per permettere alle auto di passare, ma lasciata
grezza e irregolare sulle pareti laterali. Non sono ovviamente disposti su
una linea retta, bensì a zig zag: non potrebbe essere altrimenti data la
natura tremendamente frastagliata ed irregolare di questi isolotti. Sui
ponti capita spesso che le automobili che si incrociano debbano alternarsi
per poter passare entrambe, da cui le imboccature sono quasi sempre regolate
da semaforo. Nonostante lo scarsissimo traffico, ciò può significare lunghe
attese per passare da un appezzamento di terra all'altro. Il dedalo di vie
di comunicazione creato dai ponti è piacevolissimo da percorrere, la fatica
si attenua notevolmente schiacciata dal fascino di questi sputi di terra e
roccia in mezzo all'oceano. Nell'acqua scorgiamo degli strani recinti
circolari di ferro verniciato, come delle piccole arene apparentemente
sospese sull'oceano, ma senza pavimento: c'è unicamente la ringhiera, che
circonda solo altra acqua. Non si capisce bene come faccia a stare in piedi
una struttura simile, né tantomeno riusciamo ad immaginare a cosa serva:
forse sono punti di pesca per l'attacco delle reti, o chissà cos'altro. Deve
per forza avere a che fare con la pesca dato che è praticamente l'unica
attività che si pratica qui. Vediamo ancora riuniti numerosissimi i
caratteristici tralicci di legno, mentre le montagne, sempre senza
vegetazione o popolate da pochi fili d'erba stentata e fragili licheni,
formano delle strette gole e insenature raggiunte dall'acqua in ogni punto.
Solo in alcuni punti le pareti rocciose degradano in una gola a forma di U,
che per quanto bassa non lascia però intravedere nulla al di là di essa.
Alcune montagne hanno persino delle tracce di neve nelle zone che rimangono
perennemente in ombra! Vedere della neve estiva su una montagna a livello
del mare è uno spettacolo decisamente inusuale!
Hamnoy
Man mano che passiamo da un ponte all'altro, fermandoci sempre più spesso
per la stanchezza che ormai la bellezza dei paesaggi non può più sopprimere
a sufficienza, arriviamo alla cittadina di Hamnoy, dislocata in modo a dir
poco bizzarro sugli scogli. I nostri stomaci reclamano qualcosa di
commestibile, per cui cerchiamo un posto tranquillo dove poterci stravaccare
a guardarci attorno in pace. Dopo un po' di tentativi andati a vuoto, ci
fermiamo in una zona completamente rocciosa di fianco alla quale sono
infisse una serie di case su palafitte, incastonate perfettamente nelle
rocce lambite dall'acqua. Sono tutte case perennemente lasciate in affitto
ed al momento paiono disabitate, per cui possiamo permetterci di soggiornare
fuori senza il timore di essere scacciati. Le alghe e i coralli che
intravediamo nell'acqua bassa della costa sono un'infinità, così come sono
numerosissimi gli uccelli che vociferano continuamente dicendosi chissà che
cosa nel loro linguaggio a noi incomprensibile. Il sole è quasi a
perpendicolo sopra di noi: mi viene quasi la tentazione di fare un bagno in
quelle acque per rinfrescarmi un po', idea subito accantonata non tanto per
la mancanza del costume ma piuttosto per la paura di cosa mi potrebbe
succedere una volta uscito ed esposto al vento fresco ed incessante che ci
sferza vigoroso. Mi limito a lavarmi le mani con l'acqua del mare, cercando
di pulirle da quella specie di colla di cui è sporco il coprimanubrio
sinistro e che mi sta tormentando da quanto è appiccicaticcio.
Moskenes
Ormai ripresici dalla fatica della pedalata, ma non dai dolori alle gambe
che sentiamo dopo i quasi venti chilometri percorsi, torniamo indietro per
non rischiare di tardare troppo la sera. Siamo molto dispiaciuti dal
dovercene già andare, ma torniamo comunque pienamente soddisfatti, è andato
tutto liscio come sperato. Anche stavolta, come successe al Preikestolen, il
ritorno è duro tanto quanto l'andata: tutti i saliscendi si sono
semplicemente invertiti, per cui conservano intatta la loro difficoltà. Non
basta certo un'oretta scarsa seduti su una panchina per rimettersi come
nuovi, da cui riprendo a soffrire come prima. Sono così stanco che percorro
praticamente tutte le salite spingendo la bicicletta a piedi. Questa volta
evitiamo le galleria prendendo le sterrate strade alternative, fiancheggiate
da alberelli e percorse solo da qualche raro turista appiedato, per poi fare
una sosta a Moskenes. La sua chiesetta funge da punto di riferimento, alta
solo pochi metri più del resto delle costruzioni. L'attracco per il
traghetto conta ben otto corsie per le automobili, di cui tutte tranne una
sono destinate ai veicoli e alle persone che tornano a Bodø, mentre la
rimanente porta all'isoletta di Vadøy, poco più a sud. L'ufficio
informazioni vende magliette delle Lofoten raffiguranti il sole di
mezzanotte, tazze souvenir e perfino delle strane bustine di stoccafissi
rigidi come il legno, così asciugati da contenere ben ottanta grammi su
cento di proteine pure. Molto nutrienti e soprattutto molto sani!
All'esterno invece c'è una bacheca con esposti gli orari dei bus e dei
traghetti, unico luogo in cui possiamo avere informazioni, dato che di avere
volantini da mettersi in tasca non se ne parla nemmeno. Informatici bene su
come muoverci in giro per l'isola con il trasporto pubblico, rimane solo da
completare il giro del promontorio. Passiamo lentamente in mezzo alle
onnipresenti travi di legno fittamente intrecciate, alcune delle quali
recano stesa qualche malandata rete da pesca strappata in alcuni punti e
probabilmente inutilizzabile.
Riprese ancora un po' di forze, riprendiamo la via per Å. Ormai scendo
praticamente per forza d'inerzia, non pedalo quasi più. Sono su un
celerifero dell'Ottocento, più che su una bicicletta. Uno stentato ma
memorabile scambio di battute tra me e Davide, durante una salita faticosa
in cui stranamente sono rimasto in sella e abbiamo un fiatone pazzesco, è
emblematico: "Ma come fanno quelli che fanno il giro d'Italia?" "Si dopano".
"E quelli che non si dopano?" "Arrivano ultimi". Nella concitazione del
momento queste poche frasi mi fanno scoppiare a ridere fragorosamente,
consumandomi il poco fiato rimasto. Presto finisce questa agonia e stiamo
nuovamente percorrendo le ultime altalenanti stradine che conducono dritte
al nostro alloggio.
Missione
Torniamo alle cinque e un quarto, scendendo lentamente nel centro del paese
e posizionando direttamente le bici nei loro sostegni, non volendo averci
più a che fare nemmeno per un istante più del necessario. Siamo distrutti
dalla fatica ma largamente soddisfatti, e ritorniamo in camera per
rilassarci il più possibile. Siamo ancora soli e lo rimarremo, nessun
turista prenderà posto negli altri due letti. Possiamo finalmente lavarci e
mangiare qualcosa. La sera siamo troppo stanchi per uscire, e passiamo il
tempo a raccontarci del più e del meno e cercando di calcolare il calore
irradiato dalla lampadina sopra di noi: trovata la metratura cubica della
stanza, calcolata partendo dalla capacità nota in litri dei nostri zaini, e
il calore specifico prodotto dalla lampadina, possiamo dedurre a livello
teorico che la nostra lampadina scalda di 6 gradi la temperatura della
stanza ogni ora! Insomma un ottimo modo per far passare il tempo fondendosi
il cervello inutilmente. Prenotiamo inoltre un ostello nella piccola cittadina di Svolvær, trovato all'ultimo minuto e non senza una lunga
ricerca. Si tratta della capitale amministrativa delle Lofoten, nonché della
città più antica del Circolo Polare Artico, risalente all'epoca dei primi
Vichinghi. Situata nella parte centrale della catena insulare e curiosamente
gemellata con la nostrana città di Ancona, sarà la nostra meta. La ragione
per cui non scegliamo la ben più visitata Stamsund è che a pochi chilometri
da Svolvær si trova un piccolo ed insignificante villaggio di nome Kabelvåg,
dove diverse decine di anni fa mio padre in viaggio per la Norvegia incontrò
una sua corrispondente radioamatrice, di nome Laila, della quale non ha più
notizie da circa una trentina d'anni. Tocca a noi ora tentare di
riallacciare i contatti persi con la signora che sarebbe ormai settantenne,
e coi figli Lars ed Erik ormai quarantenni, ammesso di trovarli e
soprattutto di trovarli vivi. Il giorno successivo prenderemo l'autobus per
Svolvær, preparandoci ad una solerte ricerca: tutto in quel paesino è ormai
cambiato, sia la geografia che le persone. Scivoliamo sotto il piumone,
pensando alla giornata a venire e cercando di distogliere le percezioni
dalla scomodità del letto, fino a passare nel misterioso ed interminabile
mondo dei sogni, che oggi abbiamo potuto sondare senza doverci addormentare.
Svolvær
Come prevedibile, mi sveglio con un marcato dolore alla schiena, quel
dannato materasso seppur imbottito con un piumone in più (rubato al letto
vuoto di fianco al mio) non ha risparmiato le mie vertebre già non
perfettamente dritte. La partenza è fissata per le nove: il nostro pullman
impiegherà circa tre ore e mezza per raggiungere la cosiddetta capitale
amministrativa, che conta solamente 4500 abitanti ma ha addirittura un
aeroporto, tralaltro vecchio di parecchie decine di anni. Arriviamo con
largo anticipo alla stazione dei bus, un enorme spiazzo asfaltato vuoto con
un baracchino che funge da punto informazioni e biglietti, munito anch'esso
di toilette a pagamento. Un sacco della spazzatura smembrato, probabilmente
opera di qualche cane o gatto in cerca di cibo, ha riversato tutto il suo
contenuto nella pensilina del bus, ma nessuno dei pochi presenti si cura di
raccogliere i rifiuti, preoccupati tutti solamente di ripararsi dal freddo
penetrante che si insinua in ogni angolo di pelle lasciato scoperto dalle
giacche. Il cielo è molto più nuvoloso di ieri, oggi la gita in bicicletta
sarebbe impensabile, troppo alto il rischio di pioggia e soprattutto troppo
freddo, senza l'ausilio del prezioso sole. Pagata la salata tariffa per il
trasporto, ripercorriamo per l'ennesima volta la strada per Moskenes che
ormai conosciamo a memoria, di aspetto lievemente mutato dal cielo coperto.
Purtroppo è tempo di andarsene dal paese delle meraviglie.
Mentre costeggiamo l'oceano, finalmente liberi dal freddo e dal vento nel
caldo ambiente del grosso pullman turistico, vediamo tantissime altre
ringhiere circolari sospese come per magia in mezzo al mare, tutte
allineate. Di nuovo proviamo a immaginare a cosa possano servire e
soprattutto come siano state costruite, ma non ci viene in mente nessuna
spiegazione soddisfacente, da cui desistiamo e le rimuoviamo temporaneamente
dalla memoria, riservando la curiosità a quando potremo informarci. Man mano
che proseguiamo, la geografia e l'aspetto delle isole cambia radicalmente:
le montagne cominciano a riempirsi di vegetazione arborea ed arbustiva, il
paesaggio da fiabesco si fa sempre più ordinario e più continentale, se
vogliamo anche lievemente monotono, specialmente una volta abbandonata la
costa per ripiegare nell'entroterra. I cartelli stradali a fondo verde, che
qui non significano presenza di autostrade ma di strade ordinarie
extraurbane, continuano a segnalare Svolvær lontano, lungo le strisce
perfettamente asfaltate e quasi vuote. Aiuto il tempo a passare più in
fretta rimettendo ancora una volta gli auricolari nelle orecchie e facendo
scorrere un po' di tracce nel lettore. Cerco sempre di conciliarle col
paesaggio, scegliendo solo quelle più malinconiche ed evocative per
accoppiarle alla perfezione con la natura e le condizioni atmosferiche. Le
chitarre decadenti e tristi fanno tornare un po' di nostalgia per il ridente
paesino appena abbandonato, finchè un brano più deciso e potente risolleva
il morale e mi ricorda che sto andando in missione, a cercare come un
segugio questi vecchi amici con i quali mio padre tanto terrebbe a
riprendere i contatti. Ce la dovrò mettere tutta per non deluderlo, anche se
non mi è stato consegnato un ordine tassativo, bensì un semplice invito a
fare questa ricerca se avessimo avuto tempo e voglia, non insistendo oltre
nel caso che Kabelvåg fosse risultato difficilmente raggiungibile o lo fosse
stato a costo una perdita di tempo non indifferente. Ma Kabelvåg è a due
passi dalla nostra via, e io prendo l'incarico molto seriamente: quando mai
mi ricapiterà di viaggiare in un posto così remoto potendo trovare delle
persone che tanto tempo fa hanno avuto contatti con i miei parenti?
Mentre mi faccio tutte queste domande e mi pongo i miei propositi, è già ora
di prepararsi: la piccola cittadina di Svolvær, anch'essa sulla costa e
circondata da montagne stavolta verdi che formano un cerchio quasi completo,
è segnalata a pochi chilometri. Attraversiamo proprio Kabelvåg, che si trova
esattamente sulla strada principale: cerchiamo di carpire già qualche
informazione, ma l'autobus passa senza fermarsi e non abbiamo modo di vedere
quasi nulla, se non i lunghi cespugli di fiori viola che riempiono ogni
angolo libero ai lati della strada.
L'arrivo a Svolvær è un po' approssimativo: non sappiamo esattamente dove
scendere, nè dove sia questa fantomatica piazza in cui dovrebbe trovarsi il
nostro ostello, nè dove sia il punto informazioni, prima cosa da cercare in
ogni posto nuovo che si raggiunge. Scendiamo alla fermata che ci sembra più
centrale, riconoscendo quella che sembrava una piazzetta, e scoprendo poi di
aver mancato la fermata giusta: vagando per una decina di minuti in
direzione stavolta indovinata, il punto informazioni finalmente appare in
una piazza molto più grande che dà direttamente sul mare. Un punto di
partenza per i traghetti che solcano i fiordi lofoteniani è presidiato da
delle giovani bigliettaie in borghese che si guardano attorno speranzose di
catturare qualche nuovo cliente. Le bancarelle sono anche qui onnipresenti e
gli uffici di cambio e banche in presenza consistente ci ricordano che siamo
veramente in una piccola capitale. Preso il nostro numerino dalla
macchinetta distributrice di turni, identiche a quelle che si vedono al
supermercato, la ragazza dell'ufficio informazioni ci spiega dove dobbiamo
andare: lontanissimo da dove siamo adesso. Un interminabile vialone da
percorrere a piedi prima di voltare a destra per attraversare un quasi
altrettanto lungo ponte curvo, ma non in senso orizzontale, bensì in
verticale: è piegato come da una forza invisibile lungo un'accentuata forma
a volta che deve sicuramente essere stata più difficile da costruire
rispetto ad un ponte piatto. Questa enorme lingua di asfalto, che assicura
vertigini ai deboli d'orecchio essendo altissimo sul mare, sovrasta i moli
dove le navi da container ancora chiuse nei cantieri aspettano di essere
varate. Si intravedono in lontananza le numerose industrie ittiche che
mandano avanti tutto il paese qui come nel resto delle isole, le montagne
stavolta lasciano un po' di terra tra loro e il mare, non più gettandosi a
capofitto in acqua con la loro vertiginosa pendenza. Superata la parte in
salita del ponte, mentre sudiamo abbondantemente con addosso i vestiti
pesanti e gli zaini più pesanti ancora, la discesa sembra non finire mai:
camminiamo e camminiamo, ma le distanze paiono sempre uguali.
Possiamo renderci conto chiaramente della natura della zona in cui andremo
ad alloggiare: è un porto industriale, con serbatoi per la benzina e il
gasolio. Decine di pescherecci sono ormeggiati, alternati a qualche nave
mercantile, con un penetrante olezzo di pesce che si sente dappertutto.
Recuperate le chiavi del nostro alloggio, camminiamo ancora per qualche
centinaio di metri verso il limite del molo, fino ad arrivare ad un
malandato edificio squadrato e scrostato della vernice. L'unica nota
positiva è che contiene una camera a due solo per noi: per il resto il
panorama che si vede dalla finestra è orrendo, in primissimo piano c'è una
cisterna della Esso! Non possiamo aprire la finestra senza che la stanza
venga istantaneamente invasa dalla puzza, un insolito misto tra pesce fresco
e gasolio bruciato. I letti sono ai limiti dell'igiene, cosparsi di peli,
capelli e forfora, o chissà quale altra sporcizia non meglio identificabile,
che evitiamo rigorosamente di toccare. I bagni sono in fondo alle docce, con
ingresso unico, per cui se uno si sta lavando tutto l'ostello deve aspettare
per andare a fare i suoi bisogni, un modo di progettare le stanze
decisamente poco logico. Dobbiamo rimanere qui due notti soltanto, per
fortuna. Le lenzuola ci verranno recapitate più tardi dal custode che ora
non vediamo da nessuna parte, senza di esse non osiamo nemmeno sederci su
quei letti sporchi all'inverosimile.
Presto lasciamo la stanza per cercare gli orari dei bus che fermano a
Kabelvåg.
Kabelvåg
Il paese è piccolissimo e non sembra disporre di edifici pubblici
significativi, a parte un ufficio informazioni dipinto di giallino sbiadito,
con numerose bandiere di varie nazioni appese al suo esterno. Ha l'aria di
essere l'unico ostello che il paese ospita, ma che stando alle nostre
informazioni ed alle telefonate effettuate dovrebbe aver chiuso proprio
ieri. Il paese, nonostante sia un luogo insignificante e pochissimo abitato,
ha un aspetto comunque moderno, ben curato, ci sono un ristorante ed
addirittura una banca. Prima di raggiungere il centro vero e proprio
cerchiamo il cognome della donna sui campanelli e le cassette della posta
delle case che incontriamo, tutte rigorosamente di legno e verniciate con
colori vivaci, ma senza successo. Oltretutto mio padre non si ricorda nulla
nè della via in cui si trovava la casa nè tantomeno della casa stessa,
dimenticanza più che comprensibile dopo tutti questi anni, quindi siamo
completamente soli nella nostra ricerca. In centro proviamo per prima cosa a
chiedere all'ufficio informazioni dove sia il municipio in cui trovare
l'elenco dei residenti. In attesa che qualcuno ci dia retta, notiamo diverse
chiavi appese al muro, deducendo che questo è proprio il fantomatico ed
unico ostello di Kabelvåg. Stranamente mancano alcune chiavi, e ci chiediamo
se il posto sia veramente chiuso, ma non abbiamo il tempo di pensarci
ulteriormente: il giovane commesso biondo posa il telefono e ci rivolge
finalmente la parola. Dopo la domanda che gli faccio mi guarda con aria un
po' spaesata, sembra non capire esattamente cosa intendo, forse per via
della mia richiesta un po' tentennante ed incerta. Oltretutto non sappiamo
quale sia la parola inglese che sta per municipio, da cui facciamo un po'
fatica ad intenderci. Sembra che siamo capitati nel luogo sbagliato e che
qui non ne sappiano nulla, o forse non c'è nemmeno un municipio qui a
Kabelvåg, da cui desistiamo e tentiamo la fortuna nel ristorante della
piazza a fianco: essendo l'unico in tutto il paese, sarà sicuramente
frequentato da tutti e sarà quindi probabile trovare qualcuno che abbia
almeno sentito parlare di lei, o che meglio ancora la conosca di persona. Il
locale è ottimamente arredato e nulla lascia intendere che ci troviamo in
uno sperduto paesino delle Lofoten. Chiediamo informazioni al barista, che
si mostra molto gentile e disponibile radunando tutto il personale e
cercando qualcuno a cui quel nome sia familiare. Le voci dei ristoratori si
alternano tra loro incerte, e le poche informazioni che riceviamo sono
piuttosto contraddittorie e non molto chiare: l'unica che troviamo
incoraggiante è che potrebbe essersi trasferita vent'anni fa nella vicina
isoletta di Skrova. Non è nemmeno troppo distante, si può raggiungere con
tre quarti d'ora di traghetto, ma nessuno sembra realmente convinto di
quello che sta dicendo a proposito dei signori Wilhelmsen: ci invitano solo
a provare, già che siamo qui e chissà se e quando ci ritorneremo.
Ringraziamo tutti per la loro cortesia e disponibilità, ed usciamo dal
ristorante un po' scoraggiati ma non ancora vinti.
Incerti sul da farsi, tentiamo altre strade, trovando quello che sembra un
piccolo museo. Proviamo a chiedere al bigliettaio se conosca l'ubicazione
del municipio del paese, cercando di farci capire con qualche espressione
alternativa come "inhabitants list" o "administration", ma anche lui ci
indirizza all'ufficio informazioni appena visitato: in questo paesino
evidentemente non c'è altro di importante. Decidiamo di tentare il tutto e
per tutto, e di chiedere al commesso dell'ufficio direttamente il nome della
donna, sperando che qualcuno la conosca. Il ragazzo stavolta si mostra molto
più disponibile, anche se troppo giovane per poterci aiutare, avrà si e no
trent'anni. Ci invita a tornare dopo un'ora, quando gli darà il cambio un
uomo più anziano che potrebbe esserci di maggiore aiuto. La proposta è
ragionevole: ringraziamo e ci congediamo. Nell'oretta che abbiamo da
aspettare andiamo a visitare la chiesa intravista durante il tragitto in
pullman, che scopriamo poi essere la seconda chiesa in legno più grande
della Norvegia. Esternamente colpisce molto lo sguardo, è verniciata di
giallino e marrone scuro, ha un aspetto squadrato ed austero. Domina una
vecchia baia ormai prosciugata e tappezzata da questi strani fiori viola che
qui a Kabelvåg sono particolarmente numerosi. L'ingresso si paga venti
corone ma non le vale effettivamente, dentro c'è poco da vedere. Usciamo
presto, e Davide propone di cercare il camposanto: non è detto che la nostra
Laila non si trovi lì. Lo troviamo subito, in mezzo ad un boschetto a pochi
metri dalla chiesa: come cimitero è decisamente grande per un paese così
piccolo. Ci dividiamo a cercare il nome sulle tombe, uno sull'ala sinistra e
uno su quella destra, ma pur setacciandolo da cima a fondo troviamo solo un
omonimia di cognome. Meglio così, almeno significa che la signora, seppur
irreperibile, è viva. A meno che non sia stata sepolta altrove.
Torniamo in paese, ormai l'ora è passata e possiamo ritentare per l'ultima
volta l'ufficio informazioni: questa volta ci sono due uomini, uno
dall'aspetto più vissuto, con la pelle rugosa e i ricciolini a cascata su
tutto il capo, l'altro dall'aspetto più giovanile, ma è quest'ultimo colui
che ci viene presentato come l'esperto del luogo. Purtroppo tutti e due non
conoscono nessuno con quel nome, l'uomo apparentemente più giovane prova
anche con una telefonata, presumibilmente ad un ufficio informazioni di
qualche altro posto vicino o forse a qualche suo amico. Li sentiamo parlare
nella loro lingua captando chiaramente solo i due nomi pronunciati, di lei e
del marito Knut, che però cadono nel vuoto: nessuna informazione, nessun
ricordo. Ci rassegniamo temporaneamente e ci sediamo in mezzo alla piazza a
mangiare qualcosa, guardandoci attorno per scorgere qualche eventuale
anziano vagante a cui possiamo fare qualche domanda, confidando in qualche
suo ricordo di tanti anni fa: ma non abbiamo fortuna nemmeno qui. Non passa
nessuno che possa aiutarci, solo qualche turista dall'aria distratta che
passeggia per le anonime viuzze e presto scompare dietro l'angolo di qualche
casa per non tornare più. L'unica signora che riusciamo ad individuare per
il nostro scopo viene abbrancata da un gentile paesano che si offre di
portarle le borse della spesa fino in casa, prima che potessimo
raggiungerla. I due iniziano a chiacchierare rumorosamente, da cui non ci
sembra il caso di disturbare. Nisba. Oggi la fortuna sembra proprio averci
voltato le spalle.
Attacco aereo
Tiriamo fuori i nostri ormai insopportabili panini con la mortadella,
richiusa con lo scotch per non farla andare a male troppo velocemente.
Frugando nello zaino mi accorgo di avere ancora qualche cracker di riso, che
mi sono portato da casa per fronteggiare i momenti di fame acuta non
soddisfabile da un vero pasto. Ne sono rimasti tre pacchetti quasi
completamente sbriciolati. Dopo i canonici panini, Davide ha ancora fame e
si allontana qualche minuto a comprare un hot dog al vicino spaccio. Io
d'impulso penso di offrire i crackers come cibo ai numerosi uccelli che
passeggiano per la piazza lastricata, perennemente in cerca di briciole
offerte loro da qualche generoso passante. Apro un pacchetto, stritolandolo
prima tra le mani per polverizzare bene il contenuto, e incautamente ne
getto un po' ad un paio di piccioni che mi stanno passando proprio ora
vicino alle gambe: che idea malsana! In un attimo attiro una quantità
impressionante di pennuti di ogni tipo, inclusi gli onnipresenti gabbiani,
che in pochissimi secondi appaiono dal nulla e si fiondano sul cibo
litigando e beccandosi tra loro. I volatili presi da frenesia alimentare si
ammassano attorno al tavolo e alcuni ci salgono temerariamente sopra,
scatenando le mie risate e l'ira del mio compagno di merende, che tocca
l'apice quando un gabbiano rapace, ingolosito da un sacchetto di crackers
salati lasciato imprudentemente aperto sul tavolo, scende in picchiata e fa
razzia del cibo prima di poterci avvicinare per recuperarlo. Ma da dove sono
saltati fuori tutti questi uccelli? Il nostro tavolo è diventato una
voliera! Davide mi guarda con aria indescrivibilmente seccata, vorrebbe
uccidermi per quello che ho combinato, ma io non riesco a far altro che
ridere. Non riusciamo a scacciare tutti quegli uccelli, hanno troppa fame
per andarsene, e anche quando hanno finito di beccare anche l'ultima
briciola rimasta non ne vogliono sapere di lasciarci in pace, riconoscendomi
come quello che li ha foraggiati prima e seguendomi nei miei spostamenti
ovunque mi trasferisca. Siamo quindi costretti a traslocare di tavolo,
mentre io uso gli altri pacchetti di cracker come esca lanciata sempre più
lontano per attirarli nella parte opposta della piazza. Con questo simpatico
diversivo si conclude la nostra infruttuosa missione a Kabelvåg, che
abbandoniamo pochi minuti dopo.
Rinnovata speranza
Un po' delusi dal fallimento della spedizione, rimaniamo ignari su come
spenderemo il terzo giorno dedicato alle isole Lofoten. La gita sul fiordo
viene presto scartata quando veniamo a conoscenza del suo prezzo. L'ufficio
informazioni ci viene in aiuto quando ormai siamo proprio disperati e senza
idee, essendoci resi conto che le poche attrazioni visitabili che ci sono
nei dintorni non sarebbero raggiungibili per la penuria di bus del fine
settimana. Ci viene consigliata una puntatina di una giornata all'isola di
Skrova, proprio quella indicataci dai ristoratori come il posto in cui
cercare Laila, assicurandoci che è in ogni caso un posto carino dove passare
un pomeriggio. Vada per Skrova. La ricerca dunque non è ancora finita,
qualche tenue speranza si sta riaccendendo, l'ultima fiammella superstite
prima del soffio definitivo che ancora ignoriamo se stia per arrivare o no.
La mattina successiva ci alziamo molto presto per prendere il primo
traghetto, che in tre quarti d'ora dovrebbe trasportarci su questo minuscolo
appezzamento di terra e roccia, che vive interamente di pesca e caccia alle
balene. Solo qualche rotatoria stradale e galleria da percorrere, stavolta a
piedi, fino al porto: non vediamo anima viva che sta aspettando il traghetto
che dovrebbe partire da qui, cominciamo a preoccuparci pensando di aver
sbagliato qualcosa, ma i cartelli non possono sbagliare e con chiarezza
inequivocabile indicano il punto di partenza proprio qui, in questo spiazzo
completamente deserto. Quando la nave lentamente si accosta e si apre per
lasciar salire passeggeri e veicoli (inesistenti), la verità è presto
svelata: siamo gli unici due temerari che stamattina vanno all'isola. Senza
di noi partirebbe vuoto. Imbarazzante, ma tutto sommato è divertente avere
una nave tutta per noi, con i bigliettai e manovratori che ci guardano come
bestie rare. Probabilmente non ne vedono molti salpare a quest'ora per
raggiungere un posto così deserto. Dopo queste premesse non possiamo fare a
meno di chiederci che razza di isola misteriosa sia questa, dove non va
nessuno. Il battello si fermerà a Skrova per poi ripartire e raggiungere
un'altra isoletta simile ma ancora più piccola, chiamata Skutvika. Speriamo
per i marinai e macchinisti che almeno ci sia qualcun altro da caricare più
avanti, perchè far partire dei traghetti completamente vuoti non deve essere
molto soddisfacente, anche se si viene pagati per farlo.
Skrova
All'arrivo a Skrova troviamo il minuscolo porto completamente deserto, con
un singolo punto di attracco per le navi e un'altrettanto singola corsia per
il carico dei veicoli, anch'essi assenti. Appena messo piede a terra e
lanciato un'occhiata circolare a quel che vediamo del paese, capiamo subito
di essere capitati in un vero e proprio villaggio fantasma: nessuno in giro,
un silenzio di tomba, tranquille casette con giardino ben tenuto tutte con
le tende tirate, due panchine in croce dalla curiosa forma a stella nella
minuscola piazza adiacente al molo, un unico alimentari che apre alle dieci
di mattina, col marchio della catena Coop infisso sopra l'entrata. Detto
così, potrebbe far pensare ad un grande magazzino, ma il suddetto mercato
non è un grosso parallelepipedo bianco come siamo abituati a vedere: sarà
grande si e no come un minuscolo bar di provincia, suscitando non pochi
sorrisi e commenti da parte nostra. Questa è Skrova, e nulla di più:
nonostante la desolazione che si avverte nell'aria, ha una sua attrattiva:
mi affascinano sempre questi luoghi così dimenticati e fuori dal mondo.
Skrova è inoltre popolata da tantissimi gatti: stupendi felini notevolmente
pelosi e altrettanto pesanti, con le zampe forti e muscolose indispensabili
per cacciare le prede che si nascondono nei fitti ed estesi boschi
norvegesi. Per questi animali deve essere un paradiso vivere qui: hanno
tutto il pesce che vogliono e la probabilità di essere investiti da
un'automobile, la loro più acerrima nemica senza odore nè respiro, è
prossima allo zero.
In questi stretti e polverosi viottoli vediamo un paio di vecchissime
automobili entrare pigramente in qualche stradina secondaria, sbuffando e
traballando sotto il peso di qualche mobile caricato nel capiente
bagagliaio. Poi un anziano signore che aspetta che la locale Coop apra per
andare a comprare il pane della mattina. Una delle poche persone che
incrociamo è una giovane signora con gli occhiali da sole che ci riconosce
subito come turisti. Vedendoci vagare senza meta girando la testa qua e là
cercando qualcosa di anche solo vagamente stimolante, ci offre il suo aiuto.
Rispondiamo di non avere bisogno di particolari indicazioni (per dove,
poi?), ma approfittiamo per spiegarle che stiamo cercando l'introvabile
signora Laila che secondo le nostre poche informazioni dovrebbe essersi
trasferita qui, lei scuote il capo ma si offre di provare a chiedere alla
gente del posto: ci conduce in un punto dove è seduta una signora
decisamente attempata, con una rosa di capelli grigi. A giudicare dalla sua
pelle, ha come minimo novant'anni. Si parlano un po' in lingua locale, ma
niente: l'anziana donna ha vissuto qui da sempre e non ha mai conosciuto nè
sentito parlare di nessuno che si chiami in quel modo. La ricerca finisce
ufficialmente qui, è ormai chiaro che non la troveremo mai.
Il giro dell'isola
Cosa ci rimane da fare, a parte la spesa nel minuscolo negozietto dal tanto
famoso marchio? L'unico interesse dell'isola è quello naturalistico, che è
anche il nostro principale interesse dell'intero viaggio. Inizialmente
vogliamo tentare la scalata alla montagna più alta, ma sbagliamo itinerario
e ci troviamo sul percorso del giro a 360°, da cui decidiamo di proseguire
per quella via. Delle banderuole arancioni, penzolanti da dei pali di legno
infissi saldamente nel terreno, ci indicano la strada in modo abbastanza
regolare. Un momento ci troviamo nel sottobosco tra gli alberi che ci
coprono come in un tunnel, un altro momento siamo sulle rocce ricoperte
interamente da muschi, licheni e cardi che crescono invadendo ogni spazio
disponibile, in un altro ancora siamo in riva al mare su dei massi enormi
pieni zeppi di conchigliette portate dalle onde che da millenni bagnano
queste coste immacolate o quasi. Il silenzio è completo, rotto solo
dall'incespicare dei nostri passi su una roccia un po' scivolosa o
instabile, oppure dalle eriche e dal muschio secco, che calpestati crepitano
e ci riempiono le scarpe di fastidiose spine. Ogni tanto mi devo fermare a
toglierle, quando mi sembra di camminare su un letto di chiodi. Sul suolo
crescono innumerevoli mirtilli e bacche rosse opache non meglio
identificabili, forse ribes ancora immaturi. Le particolari sostanze
nutritive depositate ivi dall'acqua creano un ambiente in cui riescono a
vivere rigogliose delle specie di piante che alle nostre latitudini crescono
solo in alta montagna e in precario equilibrio, un altro aspetto peculiare
delle sfaccettate Lofoten. Non ce n'è, queste isole hanno davvero qualcosa
di speciale. Cespugli di splendidi fiori molto simili ad azalee spuntano
ogni tanto da qualche avvallamento nel terreno, insieme ad arbusti dalle
foglie rosse ed arancioni che costeggiano intere parti di sentiero. A volte
intralciano anche un po' il cammino con i loro rami tesi che rimbalzano
all'indietro colpendo il successivo escursionista se non sta alla distanza
di sicurezza adeguata. Ogni tanto qualche buca piuttosto profonda in mezzo
al sentiero mi fa sussultare proprio mentre sto per posarci il piede sopra:
nascosta dai lunghi fili d'erba che si piegano su di essa come a proteggerne
l'entrata, metterci il piede sopra significherebbe sprofondare con buona
parte della mia statura, quasi sicuramente insozzandomi di fango creato dai
torrentelli che ogni tanto si sentono scorrere. Questo succede più di una
volta, ma dopo la prima sto molto più attento ed evito agevolmente le
successive buche. L'unico rumore percepibile è quello del vento oceanico e
delle risacche che non producono mai due volte lo stesso suono in milioni di
anni, in un avanti e indietro che è sempre stato e sempre sarà: per il resto
tutto tace.
Proseguendo lungo la costa della collina, sbarrata dalle rocce e impossibile
da percorrere ulteriormente, il sentiero muta bruscamente in roccioso e
tortuoso, virando verso l'alto. Ora è decisamente ripido: più volte perdiamo
la strada e finiamo dentro i cespugli spinosi, che scricchiolano sotto i
nostri piedi come il vetro sottile di lampadine infrante in mille pezzi,
facendoci sprofondare in un equilibrio costantemente instabile fino
all'ultima salita. Dobbiamo inerpicarci per dei gradini scavati nella
roccia, molto faticosi da superare. Alcuni di essi creano delle piccole e
suggestive grotte dove un esploratore in difficoltà potrebbe passare una
soddisfacente notte al riparo. Finalmente dalla cima la visuale si riapre
sulla vallata sottostante: il paese appare così piccolo e insignificante da
lassù, ancora più di prima. Una bianchissima spiaggia sulla destra unisce
come un ponte naturale l'isola su cui poggiamo i piedi con un'altra più
piccola, sulla quale spiccano due solitarie casette bianche, apparentemente
molto ben tenute. Sullo sfondo vi è una lunga catena di montagne quasi
esclusivamente rocciose, che solo in pochi punti si apre per consentirci la
vista del mare che si estende oltre, ed è sovrastata da nuvoloni grigi che
però non riversano nemmeno una goccia d'acqua. Una breve sosta sul crinale,
per poi ridiscendere per un sentiero ancora più difficile, fatto di continui
salti tra una roccia e quella sottostante, abbastanza bassi da poterli
superare con un balzo e abbastanza alti da farsi male ai piedi atterrando
con tutto il peso in una volta sola. Scivolando ed incespicando raggiungiamo
di nuovo il sentiero battuto, fiancheggiato dall'onnipresente vegetazione
del sottobosco. Un grande sollievo per i nostri piedi imprigionati dentro
delle scarpe ormai sempre più consumate. Le mie tralaltro sono completamente
inadatte alle camminate su questo tipo di terreno, essendo fatte di tela
flessibile e dotate di suola troppo bassa, ma è sempre meglio che usare le
scarpe da trekking e ritrovarsi le caviglie segate in due un'altra volta. In
men che non si dica siamo di nuovo in paese, ancora più vuoto e deserto di
prima.
Felini
Abbiamo ancora diverse ore da passare a Skrova, prima che l'unico traghetto
disponibile venga a recuperarci intorno alle sette e mezza. Dobbiamo perciò
inventarci qualcosa da fare, a parte mangiare le vivande della piccola Coop,
ma non è facile inventarsi qualcosa da fare in un posto dove non c'è nulla.
Ritornando in piazza trovo un bellissimo ma non molto socievole esemplare di
gatto delle foreste norvegesi puro al 100%, talmente peloso da sembrare un
peluche fuori misura. In un impeto di sconsiderato ottimismo lo sollevo,
esponendomi al rischio di graffiate, ma la bestiola sembra starsene
tranquilla. Pesa parecchio! Dopo parecchie mie insistenze, Davide mi scatta
una foto mentre lo tengo saldamente tra le braccia, e un attimo dopo che la
foto è stata impressa sul rullino il gatto si libera dalla presa con una
mossa improvvisa e scappa. Questo si chiama tempismo!
Ad un'altra estremità dell'isola troviamo solamente quello che sembra un
faro ma poi si rivela un centro di controllo per i cavi dell'alta tensione,
che qui scorrono in parte appesi ai tralicci e in parte a terra, ben isolati
in mezzo al sentiero battuto che poco prima abbiamo percorso. Lungo la
strada non resisto al fascino di uno scivolo e di un'altalena, tra la
benevola disapprovazione del mio compare che si rifiuta categoricamente di
salirci. Tornando dopo poco nella piazza principale, in cui qualche essere
umano come noi stavolta c'è, ci sediamo involontariamente a fianco di un
grosso nido di vespe. Ce ne accorgiamo però solo dopo svariati minuti,
quando dei bambini incoscienti iniziano a bombardarlo con dei sassolini. Gli
insetti visibilmente innervositi cominciano ad uscire uno dopo l'altro
vorticando rabbiosamente attorno al nido, abbiamo paura che possano
prendersela con noi. Stiamo per sbaraccare e spostarci da un'altra parte, ma
i bambini desistono dall'attacco e le vespe si calmano presto, lasciandoci
finire la nostra briscola in pace. Quando siamo stanchi di trafficare con
cuori e picche, facciamo un giro anche nell'ultima parte del paese, seguendo
la costa: vuota e smorta anche questa (che novità!), sembra proprio un
villaggio abbandonato da Far West americano, se non fosse per dei
simpaticissimi gattini di pochi mesi che non hanno paura di noi e hanno solo
voglia di giocare un po'. Si fanno anche prendere in braccio, sono veramente
teneri, come tutti i cuccioli di qualsiasi animale. Quando iniziano a
rincorrersi tra di loro infilandosi nelle siepi e nelle pallide staccionate
delle case, li lasciamo divertire e proseguiamo per il polveroso viale,
trovando macchine parcheggiate vecchie come minimo di trenta o quarant'anni,
più dei grossi blocchi di cemento e travi di ferro abbandonati sulla riva.
Probabilmente sono destinati alla costruzione o alla riparazione delle navi
baleniere, che partendo da qui uccidono ogni anno centinaia e centinaia di
questi esemplari tingendo di rosso gli oceani e rischiando di causarne
l'estinzione, indifferenti alle pressioni internazionali.
Ormai un po' stufi di girare per quelle stradine deserte, ce ne torniamo in
piazza, per essere pronti all'arrivo del traghetto. Chissà se è vuoto anche
stavolta. In piazza assistiamo a delle animate lotte di territorio
ingaggiate da tre felini autoctoni, che si rincorrono e si punzecchiano come
dei bambini per decidere chi tra loro avrà il dominio di quella zona. Ci
divertiamo ad osservarli mentre si scrutano prudentemente dalle loro
posizioni di guardia: ogni tanto fanno qualche piccolo scatto per poi
muoversi in tutt'altra direzione, da veri tattici di guerra, ma la
situazione non si risolve mai.
Strano essere
Questa volta ci sono diverse persone sul traghetto, e i posti disponibili
sono pochi, da cui ce ne accaparriamo velocemente due. Appena sbarcati
facciamo la spesa per i giorni successivi in un grande magazzino, dato che
non vedremo più per qualche giorno un ostello o un locale dove mangiare.
Arriviamo proprio mentre stanno chiudendo, riusciamo a fare la spesa al
volo. Mi metto a cercare febbrilmente le bustine di stoccafisso, presto
usciremo dal Paese e probabilmente non ne troverò più, è l'ultima occasione
che mi si presenta di provare questo tipicissimo prodotto. Per quanto giro
il supermercato, non le trovo; tuttalpiù veniamo più volte in contatto con
un essere umano di dubbia provenienza, coi capelli neri lunghi che paiono
sott'olio, i vestiti stracciati e una bottiglia vuota in mano, che si aggira
per il supermercato sbuffando e facendo strani versi a chiunque
involontariamente gli si pari davanti. Sembra che sia convinto di essere su
un altro pianeta dall'espressione che ha negli occhi pericolosamente
infossati, dimostra settant'anni ma forse non raggiunge nemmeno i cinquanta.
Mi inquieta un po', continuando ad andare avanti e indietro proprio a fianco
a me, anche se dopo i primi versi che mi ha buttato in faccia sembra non
curarsi più della mia presenza. Affrettandomi a finire la spesa per
liberarmi il prima possibile del curioso personaggio, all'ultimo riesco a
trovare le bustine di stoccafisso! Appena pagato dobbiamo subito uscire in
fretta e furia: incalzati dagli inflessibili commessi che non possono
ritardare nemmeno di un minuto a chiudere il negozio, finiamo sotto la
pioggia che guarda caso sta iniziando a cadere proprio ora. Dello strano
personaggio fortunatamente non v'è più alcuna traccia.
Per cena tento di mangiare lo stoccafisso così come l'ho comprato, peccato
che non riesco nemmeno a staccarne un pezzettino minuscolo da quanto è duro!
Ha la consistenza di un pezzo di legno. Va cucinato a dovere prima di poter
essere commestibile! Ma ora si dorme: domani si riparte alla volta di
Narvik, uscendo definitivamente dalle lande norvegesi per non più
ritornarvi. Lande che ci hanno regalato grandissime emozioni e degli
splendidi ricordi che ci porteremo dentro per sempre.
Addio Norvegia!
Ci attende una giornata intera in movimento, per raggiungere il nostro punto
di riferimento in Svezia, la cittadina di Luleå. Anche in questo caso non
abbiamo informazioni di alcun tipo su di essa, né tantomeno su questo
fantomatico ostello ivi presente, che non riusciamo a contattare per
telefono e del quale non conosciamo nemmeno l'indirizzo. La mattina ci
alziamo fin troppo presto, abbandonando con soddisfazione il puzzolente
ostello per prendere il bus che ci riporterà sul continente fino a Narvik,
distante qualche centinaio di chilometri. Essendo domenica, non c'è
assolutamente nessuno in giro nè niente di aperto, nemmeno il più grande dei
supermercati. La luce è già forte, ma la cittadina dorme ancora, sembra
proprio che non si voglia svegliare. Le uniche cose che si vedono muoversi
sono le cartacce per terra che si spostano di qualche centimetro sospinte
dal vento, due solitarie automobili cariche di persone che passano
lentissime ed incerte lungo il larghissimo vialone per poi scomparire, e
null'altro. La malinconia per il dover lasciare la Norvegia si fa sentire
molto forte, e ci accorgiamo di aver avanzato più di trecento corone che non
abbiamo idea di come spendere. Una vera seccatura poichè nè in Svezia nè in
Finlandia le accetteranno più, costringendoci a cambiarle con tassi di
interesse assolutamente imprevedibili. L'autobus arriva finalmente a
prelevarci, dopo che abbiamo per un attimo pensato di non vederlo più
arrivare. Avendo scoperto giusto il giorno prima che il biglietto interrail
ci garantisce lo sconto del 50% sugli autobus delle Lofoten, stavolta
paghiamo considerevolmente meno. Ci mettiamo comodi per il lungo tragitto
che ci aspetta: arriveremo più o meno per le due e mezza. Il paesaggio della
parte più a nord delle Lofoten non è più nulla di particolare: bello da
vedere sì, ma tutto sommato abbastanza piatto, quasi continentale. Le
montagne sono molto simili a quelle nostrane, vi sono pochi tratti
sull'acqua degni di nota, e tanti anonimi svincoli stradali. Continuamente
sballottati in mezzo a tutte queste curve, passiamo il tempo ancora una
volta con un po' di sana musica nelle orecchie, fedele compagna che non
tradisce mai.
Narvik
Dopo sei ore di pullman siamo di nuovo nella Norvegia continentale, grazie
ai lunghissimi ponti che uniscono le Lofoten alla terraferma e ci permettono
di non dover più prendere mezzi navali. La cittadina di Narvik è ancora oggi
relativamente importante, famosa per essere stata pesantemente bombardata
dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale per accaparrarsi il
ferro ivi prodotto, tanto caro all'industria bellica nazista. Nonostante la
sua importanza storica, la stazione è letteralmente un buco: piccolissima,
deserta e ridotta al minimo indispensabile. Le serrande della biglietteria
sono chiuse e non c'è nulla che presagisca che si debbano aprire nel
pomeriggio, ma fortunatamente l'interrail ci salva anche da questa
situazione. Il tabellone per le partenze è decisamente mal progettato:
mostra gli orari in modo un po' confuso, per poi lasciare il posto a minuti
e minuti di informazioni pubblicitarie che non servono a nessuno,
costringendo chi sia arrivato proprio in quel momento ad una lunga attesa
per sapere quando arriverà il suo treno. Siamo comunque in orario, possiamo
metterci comodi ed addirittura usufruire dei bagni senza pagare nemmeno una
corona. Crollano tutte le speranze di riuscire a spendere almeno una parte
del denaro locale residuo: dentro e fuori dalla stazione non c'è
assolutamente nulla, nemmeno uno straccio di chiosco che venda giornali o
caramelle, niente. L'unica cosa in cui troviamo da spendere soldi è un
telefono pubblico, che tentiamo di utilizzare per chiamare nuovamente
l'ectoplasmico ostello di Luleå, ma ancora una volta il numero non è
funzionante e il telefono per giunta ci mangia le venti corone che gli
abbiamo regalato per farci fare la telefonata. Non è la prima volta che il
telefono pubblico si pappa i nostri soldi, e iniziamo ad essere stufi. Farsi
fregare da una macchina non è esattamente il modo migliore di buttare via i
risparmi, da cui accantoniamo per sempre i telefoni pubblici, fidandoci solo
del cellulare.
Mentre mi guardo intorno seduto su una delle panche all'interno, un
viaggiatore confuso dall'ambiguo tabellone che facciamo tutti fatica a
interpretare si avvicina timidamente per chiedermi qualche informazione su
come potrà arrivare a Stoccolma in giornata. Dopo aver decifrato le partenze
purtroppo sono costretto ad informarlo che il suo treno è già partito la
mattina, e che dovrà accontentarsi di fare tappa intermedia un po' più su.
Dalla sua espressione capisco che c'è chi sta peggio di noi in quanto a
spostamenti, ma non siamo comunque molto più fortunati di lui: abbiamo sì il
treno pronto, ma niente di più, nessuna informazione sulla destinazione e
tantomeno certezze. Davide trova un elenco telefonico della zona abbandonato
sul bancone, e gli balena l'idea di cercare lì la nostra introvabile signora
Laila: scorrendo le pagine piene zeppe di nomi di abitanti di tutte le
Lofoten incontriamo due omonimie esatte, una di lei e una del marito. Un
lampo di speranza, ma presto distrutto: si rivelano abitanti di Narvik che
non hanno nulla a che fare con le persone che stiamo cercando. Le speranze
di trovarli, distrutte e ridestate tante volte, crollano ora
definitivamente.
Prima Parte |
Terza Parte |
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1998 - 2022 Marco Cavallini
ultimo aggiornamento 20/10/2021