26 Aprile, Lo Manthang
Sveglia un po’ più tardi del solito, la tappa di oggi non dovrebbe essere tremenda. Fatta colazione usciamo per
un ultimo giro della splendida Tsarang. La giornata è una di quelle che ti riempiono il cuore per quanto è
bella, non si potrebbe immaginare una luce del sole più calda ed avvolgente ed un cielo più azzurro. Grazie
all’interessamento del nostro buon ufficiale riusciamo a trovare il custode con le chiavi del palazzo reale. E’ in uno stato
di abbandono pauroso, per salire da un piano all’altro utilizziamo le scale scolpite in un unico pezzo di legno. Ci
accompagnano presso una stanza chiusa a chiave, scampata al disastro generale, deve vediamo degli antichissimi oggetti di
culto: un libro delle preghiere molto antico, pesante decine di chili, statue e pitture. Ce lo gustiamo piano piano, ho la
sensazione di stare visitando qualcosa di davvero particolare, nascosto in una delle più segrete regioni del mondo,
in un palazzo chiuso da tempo immemorabile. Anche nella stanza accanto ci sono reliquie ed oggetti vari, alcuni di uso
quotidiano; mi colpisce un gruppo di mani recise, tra cui quelle di un uomo. Saliamo fino al tetto su scale traballanti,
per ammirare il panorama di Tsarang e delle montagne. Verso le nove riusciamo finalmente a metterci in marcia, scendendo
verso il fiume e risalendo sulla montagna, ma la salita non è impegnativa come nei giorni precedenti. Il cielo è
di un azzurro fuori di ogni possibile descrizione, il paesaggio è desertico quasi lunare. Di tanto in tanto nel senso
di marcia contrario appaiono carovane che trasportano a dorso di mulo merci cinesi, quali birra e riso, dirette a Jommson,
dove ricomincia la civiltà. Lo scambio di saluti è d’obbligo, namaste, tashideleck; giungiamo presso un
antico chorten, a quota tremilasettecento, molto grande e ci riposiamo un po’ alla sua ombra. Intorno a mezzogiorno
comincia a farsi sentire il vento, oggi più forte del solito. Man mano che ci avviciniamo a Lo Manthang, la capitale
del Mustang, meta finale del nostro viaggio, la strada diventa sabbiosa ed il vento quasi insopportabile. Il Lo La Pass a
quota tremilanovecento, ci accoglie con una tempesta di sabbia; ci arrampichiamo in cima, sotto lo sventolio delle bandiere
delle preghiere, per vedere la valle e la capitale fortificata: è un po’ una delusione almeno se paragonata
all’apparizione di Tsarang del giorno precedente. Scendiamo velocemente a valle, attraversiamo il fiume e saliamo verso la
città. Costeggiamo i muretti di pietre poste a secco, e giungiamo in prossimità della mura. Le tende sono
state piantate nel cortile di una casa brutta e maleodorante; siamo appena passati davanti all’Himalayan Resort, l’unico
"albergo" della regione. C’è anche scritto hot showers, considerando che sono quattro giorni che non ci laviamo e
dormiamo per terra, senza alcuna indecisione ci sistemiamo in questo piccolo hotel, anche se il prezzo richiesto è
decisamente sproporzionato a quanto offerto: dell’acqua calda non se ne vedrà traccia e per la luce ci vengono
fornite delle candele. Nel pomeriggio facciamo un primo giro della città, che è molto piccola. Antichissime
mura la cingono completamente, c’è una sola porta di accesso, fuori della quale ci sono due enormi ruote della
preghiera. Entrando dalla porta in città si fa un salto indietro nel tempo come nel film "Non ci resta che piangere".
Non è facile passare inosservati, un gruppo di vecchietti molto carini ci guarda incuriositi. Le strade sono
polverose, con le fognature al centro, per le vie si aggirano animali domestici come in un enorme stalla. Un signore ci
propone di andare a casa sua, dove ha un piccolo negozio di oggetti tibetani. Accettiamo volentieri e facciamo qualche
piccolo acquisto. Ci facciamo accompagnare presso una scuola buddista, che è stata segnalata ad Anna da un amico.
In questa scuola si cerca di tramandare la cultura tibetana, che attualmente in Mustang, sta venendo soppiantata da quella
nepalese e da quella cinese. Il lama che cercavamo non c’è, però ci accolgono con molto calore; una parte
della scuola è ancora in costruzione, ma vi sono ospitati circa ottantacinque ragazzi che giocano contenti in
cortile. Su una parete della scuola colgo questa frase "Great minds discuss idea; average minds discuss events; small
minds discuss people". Ritorniamo verso l’hotel, ci fermano dei monaci che ci rivolgono le solite domande in un
inglese improponibile: da quale nazione veniamo, quanto ci fermiamo; ci invitano per la preghiera del giorno dopo alle sei
del mattino. Intanto alla porta di accesso del paese c’è lo spettacolo stupendo di tutti i contadini e degli animali
che rientrano in città, centinaia di capre, cavalli, vitelli che ritornano alle loro stalle in centro città.
Le donne attingono acqua dalla grande fontana e riempiono enormi contenitori. E’ tutto davvero bello, ma quando comincio a
scattare foto con la macchina digitale, vengo praticamente assalito da tutti i bambini del paese che vogliono rivedersi
ripresi nel piccolo schermo. Scappo in hotel rincorso da una torma di bambini vocianti. Lhakpa viene a prenderci per la
cena, a base di "momo" davvero buoni.
27 Aprile, Lo Manthang
Dopo tante notti in tenda, finalmente in un letto vero, si dorme bene nonostante il rumore dei topolini che corrono nel
soffitto. Arriviamo in ritardo per la colazione, dopo la quale partiamo per il giro della "capitale"; la giornata a
differenza delle precedenti è un po’ coperta ed il tempo sarà variabile per tutto il giorno. Giriamo, unici
turisti, in questa città medievale ed andiamo alle scoperta dei tanti templi e dei monasteri armati di torcia
portatile per illuminare le pitture. Visitiamo tutti i monumenti principali, il Thubchen Gompa, nel quale alcuni monaci
stanno pregando, gli affreschi sono mozzafiato per i colori e per la perfezione dei dettagli. Per fortuna queste pitture
sono in restauro e chiunque incontreremo ci terrà a dire che i restauratori sono due ragazzi italiani, che
trascorrono quattro mesi all’anno in Mustang per portare a termine l’opera.Comunque lo stato di conservazione degli altri
monumenti è davvero pessimo, nonostante il loro enorme valore storico ed artistico. Visitiamo il più antico
Jhompa Gompa, nel quale sono affrescati a coprire le pareti splendidi mandala. Ci accompagnano a visitare la scuola annessa
al monastero, anche se oggi è domenica e non ci sono lezioni. Il direttore della scuola ci propone l’adozione a
distanza di un piccolo monaco, che ha perso entrambi i genitori. Roberta accetta, colpita dalla bellezza del bambino,
davvero commovente nel suo abitino rosso da monaco; lo fotografiamo sul tetto della scuola dal quale si gode la vista su
tutta Lo Manthang. Finite le visite andiamo in un negozietto, situato all’interno della bella casa del proprietario, che ci
fa la posta alla mattina. Gli oggetti in vendita sono oggetti sacri tibetani, di buona fattura, anche se nessuno può
garantire la loro presunta antichità. Nel frattempo il nostro ufficiale di collegamento ci ha procurato per le tre
del pomeriggio l’appuntamento per l’udienza con il re. Arriviamo puntualissimi al palazzo reale, compriamo le tre sciarpe
bianche da portare in dono secondo il rituale, e accompagnati dall’ufficiale saliamo le buie e polverose scale del palazzo
reale, in realtà piuttosto mal ridotto. Veniamo fatti accomodare in una bella stanza, il re siede con le spalle
rivolte alla finestra, ed al fianco sinistro ha il segretario traduttore. E’un vecchino molto elegante e fiero, con in testa
un bel berrettino ed in mano un rosario tibetano che farà scorrere nella mano per tutto il tempo. Ci porge delle
domande con il tramite del traduttore, che gli spiega dove sia l’Italia, più o meno dove è la Germania. Ci viene
offerto un tè aromatizzato davvero buono in belle tazze pulite di stile cinese. Le sue domande e le nostre risposte,
le nostre domande e le sue risposte sono molto scontate; l’unica cosa degna di nota è la sua contrarietà alla
strada che dovrebbe essere costruita nel Mustang, fino a Jommson, che toglierebbe il Mustang dal suo splendido isolamento
ma ne comprometterebbe l’unicità culturale e la sua sostanziale integrità. Cosa sarebbe il Mustang con i
camion o i fuoristrada al posto dei muli? Speriamo che questa follia si riesca evitare pur garantendo dignitose condizioni
di vita al popolo di Lo. Chiediamo il permesso di fotografarlo e ci congediamo. Saliamo sul tetto del palazzo reale che si
rivela sempre di più una casa uguale alle altre, anche se "la più alta della città",
c’è anche la legna del tetto; il segretario del re ci accompagna e ci parla del Mustang. Finita la visita ce ne
torniamo ai nostri giri, anche se in realtà non rimane granché da fare, se non il giro esterno delle mura,
in alcuni punti molto belle nel loro colore rosso, in realtà tendente all’arancione. Cena e poi in hotel, dove ci
aspetta la dolcissima moglie del padrone con in mano la borsa dell’acqua calda, davvero gradita per le fredda notte.
28 Aprile, Ghemi
Durante la colazione viene il monaco della scuola del giorno precedente, e ci porta in dono la kata, la sciarpa bianca
rituale, è davvero un bel modo di cominciare la giornata. Alle sette e un quarto siamo già in marcia, ci
attendono tre lunghi giorni di marcia per compiere il cammino a ritroso fino a Jommson. Durante la notte ha fatto più
freddo del solito, e tutte le montagne intorno a Lo Manthang sono ricoperte di neve. Usciamo insieme a tutti gli animali
che vengono portati al pascolo, ci sono centinaia di cavalli, capre ed altre bestie. Non ci dirigiamo per la via
dell’andata, ma facciamo una specie di anello; comunque la strada neanche a dirlo è subito in salita, e dopo un’ora
dalla partenza siamo già al primo passo a tremilanovecento metri, la strada si mantiene sempre alta in quota,
sfiorando i quattromila. Il paesaggio è desertico, il sole va e viene. Alle nove e trenta si raggiunge a fatica un
secondo passo posto a quota quattromiladuecento, il vento è molto forte. Si continua a camminare ed intorno alle
undici avvistiamo il bel complesso monastico di Ghar, preceduto da chorten, e cosa insolita circondato da alti alberi. E’
probabilmente il più antico tempio del Mustang, di poco posteriore a Samye in Tibet. Sostiamo ai piedi del
bell’edificio rosso. Non c’è nessuno e quando stiamo per desistere sopraggiunge il monaco con le chiavi. Eccoci
nuovamente a visitare un antichissimo tempio affrescato, ricolmo di opere d’arte. Qui colpisce la presenza sulle pareti
laterali di centinaia di pietre, tutte dipinte come maioliche con raffigurazioni sacre. Si entra in una seconda stanza,
ancora più buia della precedente, con una enorme statua di Guru Rinpoché, uno dei più grandi maestri
del buddismo tibetano. Finita la sosta culturale si riparte di nuovo in salita, sfiorando ripetutamente i quattromila. Sto
male, l’altitudine comincia a darmi fastidio, ho mal di testa, e poi una salita dopo l’altra, quando sembra di essere
arrivati si svolta il passo ed ecco una nuova collinetta da scalare; e poi fa pure freddo. Con fatica alle dodici e tre
quarti raggiungiamo l’ultimo passo a quattromilacento, dal quale comincia una discesa che più ripida non si
può immaginare, in mezzo ad un paesaggio fatto di creste desertiche, pinnacoli e rocce dalle forme strane. E’
davvero impegnativa come discesa, anche se man mano che scendo comincio a stare meglio. Terminata la discesa all’una e
mezzo entriamo nel paesino di Dhakmar, che sembra disabitato. Lhakpa bussa in una casa e dopo molto si affaccia una donna;
entriamo per mangiare qualcosa. La casa è bella e nella stanza dove ci sistemiamo c’è tutta una serie delle
belle pentole in rame, stile tibetano. Lhakpa ha portato chapati, alici in scatola e ceci. Ci vorrebbe un po’ di riposo ma
ci rimettiamo subito in cammino, con il tempo che non promette nulla di buono; passiamo un altro paesino molto grazioso,
con gli abitanti molto interessati a noi e le donne che si fermano a ridere e scherzare. Io procedo lungo, non mi fermo
nemmeno a fare foto. La strada come al solito sale e scende, e come se non bastasse comincia la pioggia che si unisce
all’onnipresente vento. Ci mancava solo questo; quando giungiamo in vista di Ghemi, nostra meta, la pioggia si è
tramutata in nevischio, non siamo neanche attrezzati per la bufera. La città sembra vicinissima sul suo sperone di
roccia, si potrebbe quasi toccarla, eppure come le volte precedenti bisogna scendere fino al fiume, costeggiarlo fino al
ponticello di legno e quindi risalire faticosamente verso la città, il tutto sotto la nevicata. Arriviamo nella
grande casa dove abbiamo mangiato all’andata. Chiediamo di poterci fermare a dormire nella stanza dove si mangia, è
impensabile pensare di dormire in tenda. Ci viene accordato, la stanza è molto accogliente, mi sdraio e vengo
svegliato per la cena. Sta ancora piovendo, ma appena mangiato crollo di nuovo addormentato.
29 Aprile, Chuksang
Ho dormito bene nella camera da pranzo della bella casa di Ghemi, accanto alla nostra stanza c’è una bella cappella
affrescata per le preghiere. Alle sette e un quarto siamo di nuovo in marcia per un’altra dura giornata di trekking: al
termine della giornata conterò sulla cartina ben sette passi scavalcati. Il tempo non è bello come all’andata,
in compenso la neve è molto più in basso e quasi sembra sfiorarla. Facciamo in senso contrario la stessa
strada dell’andata; è tutto un saliscendi, le salite in particolare sono una dopo l’altra, mozzafiato. Passo in
rassegna tutto il mio repertorio di parolacce, cazzo cazzo cazzo, non riesco a tenere un passo veloce, ho il fiatone, mi
sforzo di guardare per terra per non vedere fino a dove bisogna salire. Alle undici siamo a Syangmochen, dove ci riposiamo
un attimo; da qui in poi la strada sarà diversa da quella dell’andata, quando facemmo la deviazione per vedere il
Ranchung Chorten. Cambia strada, ma non cambiano le salite, c’è una mostruosa fino a tremilanovecento, il Yendo Pass,
che spezza realmente il fiato. Eppure continuiamo ad incontrare persone, uomini, donne e vecchi, che trasportano sulle
spalle carichi mostruosi, compresi mobili, grossi legni da costruzione e sacchi di cibo. Ci si scambia un veloce namaste e
si continua. Non si incontra nessun centro abitato, solo testimonianze di devozione religiosa, chorten, bandierine, mucchi
di pietre; ogni volta che si raggiunge la cima del passo non manco mai di aggiungere una piccola pietra al grande cumulo
rituale. All’una siamo a Bhona, ed in una casa consumiamo il solito pasto a base di chapati e tanto per cambiare fagioli.
La padrona di casa è molto bella, e ci dice che vorrebbe venire in Italia, in alternativa è disposta a darci
il figlioletto che ci gira tra i piedi. Si riparte senza indugiare troppo, in direzione Samar che raggiungiamo alla due e
mezzo dopo aver dovuto scavalcare e contemporaneamente maledire due gole con i relativi fiumi: discesa a perdifiato, anche
il cento percento di pendenza, fiume, e poi salita, discesa, fiume, salita, l’arrivo a Samar è una liberazione, e
con soddisfazione ripasso sotto la porta medievale di ingresso alla città. Il bel paesino dove avevamo dormito
è solo una tappa di attraversamento. Da qui in poi la strada è quella dell’andata e ce l'ho ancora ben
scolpita in testa. Rimane una lunghissima discesa fino a Chele, ripercorrendo il canyon che tanto mi aveva impressionato
all’andata. Passiamo in fretta attraverso il paese, mi sembra che i vecchietti non si siano mai mossi dalla piazza
principale. Ormai sono ricomparse le grandi montagne bianche, ed il pomeriggio si è fatto caldo. Scavalchiamo il
ponte in ferro e ci troviamo di nuovo nella valle del fiume Gandaki, con i suoi sassi ed i fossili neri. Ci dirigiamo
lentamente verso la meta della giornata, Chuksang, , passando tra i verdi campi d’orzo con le spighe quasi mature. Le tende
sono montate nel cortile sul retro di una grande casa; sono le cinque: nove ore piene di marcia, una bella tirata; mi infilo
nella tenda fino all’ora di cena, a base di pasta scotta. Eppure nonostante la faticaccia, il poco cibo e la sporcizia che
ho addosso mi sento molto contento.
30 Aprile, Jomson
E’ l’ultimo giorno di trekking, sulla carta è facile. Perciò ci alziamo con comodo, e fatta colazione
chiediamo di visitare il gompa. La signora della casa si procura le chiavi e saliamo un po’ fuori il paese. Il tempio
è stranamente scavato nella roccia, nessuna guida ne parla, nemmeno quella ormai già mitica di Lucia Ghilardi.
Entriamo dentro la roccia e dobbiamo salire due ripidissime scale scavate nel legno. Il tempio è piccolissimo ma ben
conservato. Sensazione a metà fra Indiana Jones e Tucci, scattiamo foto all’interno anche se sarebbe vietato. Alle
otto siamo in marcia; il percorso è essenzialmente nel greto del fiume anche se talvolta bisogna arrampicarsi sulle
pareti della gola perché il fiume non permette di proseguire. Dopo un po’ mi ritrovo da solo, l’ufficiale davanti e
gli altri tre, Lhakpa, Roberta ed Anna, dietro. Cammino sotto il sole nella valle, con la sola compagnia del vento, che
è l’unico rumore che mi accompagna; ogni tanto incontro qualche abitante del luogo, a piedi e con al seguito le
bestie da soma. Immerso in un paesaggio ed un silenzio quasi assoluto do sfoggio di quasi tutto il mio repertorio di lirica
con preferenza per quello francese, da "Plaisir d’amour" a "Mon coeur s’ouvre a ta voix".
Ripercorro a rebours l’itinerario, ripensando a tutte le sensazioni che avevo provato all’andata. Quando riappare la
maestosa mole del Nilgiri, ripenso all’emozione dell’andata e quando in lontananza scorgo Kagbeni il viaggio sembra finito,
anche se la strada è ancora lunga, c’è da guadare spesso il fiume, e c’è sempre quel difficile
passaggio in arrampicata a strapiombo sulle rocce. Alle undici e un quarto comincio la salito fino a Kagbeni, dove trovo
seduto in attesa il nostro ufficiale di collegamento. Dopo venti minuti arrivano gli altri, ed espletiamo le
formalità al check point; c’è lo stesso simpatico ragazzo dalle sembianze indiane dell’andata; sfogliamo con
orgoglio il registro dei visitatori che ci hanno preceduto, siamo davvero soddisfatti per la bella impresa. A Kagbeni
riappare per incanto la civiltà ed anche i turisti che non avevamo più visto nel Mustang, ad eccezione di un
gruppo di francesi. Ci fermiamo a mangiare in una guest house, uovo sodo e tonno in scatola, all’una siamo in marcia per
l’ultimo tratto. Sembrerebbe una formalità ed invece l’addio del Mustang sarà da non dimenticare. Si è
alzato un vento così forte da non poter andare avanti; il vento a Capo Vado d’inverno sembra una brezza in confronto.
Camminare è una fatica indicibile con il vento che ti soffia contro e che non smette mai di martellarti. Si cammina
con una tale fatica lungo quella strada che all’andata era sembrata così idilliaca. Attraversare il ponte sospeso
che barcolla paurosamente sotto la spinta del vento, e poi il fiume sempre tra i piedi, ... oddio che vento, ... ma guarda
cosa succede proprio alla fine, ... ma forse fino ad adesso aveva solo scherzato, è il vento del Mustang, grandioso,
che tira fuori tutte le mie negatività, così come il sole dell’andata mi aveva riempito di energia positiva.
Che fatica, cammino a testa bassa, quando le raffiche sono più forti mi fermo e mi giro per fare resistenza. Per un
microsecondo il vento si placa per riprendere subito più forte di prima. Quando vedo Jomson tiro un sospiro di
sollievo, anche se il vento non smette e non si arriva mai. Alle tre e dieci io ed Anna facciamo l’ingresso in paese,
è tutto così diverso dall’andata, le nubi offuscano il Nilgiri poi c‘è il vento. Arriviamo all’hotel
dell’andata sfiniti, chi l’avrebbe mai detto, una globalizzante Coca Cola per riprendersi; non scorderò mai la faccia
di Roberta trafelata all’arrivo. Ormai il viaggio è finito, percorriamo più volte su e giù l’unica via
di Jomson, con i suoi negozietti, faccio una telefonata a casa, dopo dieci giorni di silenzio. La cena è nepalese,
con il dessert finale come previsto in ogni trekking che si rispetti, è il momento delle mance alle guide ed ai
portatori che se lo sono davvero meritata. Lhakpa ci raggiunge e ci offre una bottiglia di un liquore locale a base di mele.
Buono, va giù come l’acqua nonostante il tasso alcolico. Si cazzeggia con Lhakpa e l’ufficiale fino alle nove e
mezzo, finalmente abbiamo fatto le ore piccole.
1 Maggio, Kathmandu
Facciamo colazione in hotel, ed alle sei e trenta siamo in aeroporto accompagnati dal fido Lhakpa. C’è molta
animazione, ci sono parecchi locali che si imbarcano con grossi pacchi di verdura. C’è anche un "famoso" attore che
si pavoneggia ammirato e se la tira un po’. Alle sette e venti siamo di nuovo a bordo del Dornier della Gurkha Air, seduti
a sinistra anche se lo spettacolo delle montagne è meno bello dell’andata. Arriviamo in meno di mezz’ora a Pokhara,
all’aeroporto siamo un po’ tristi, siamo rimasti da soli in compagnia di Rajendra, il nostro ufficiale, che si prodiga
sempre di più per evitarci ogni minima incombenza. E pensare che in tutte le relazioni lette c’erano lamentele di
ogni tipo sugli ufficiali di collegamento, il nostro è stato di una gentilezza stupenda, quando si dice un viaggio
fortunato. Un'altra mezz’ora di volo, sullo stesso aereo che nel frattempo ha rifatto la tratta Pokhara - Jomson - Pokhara
ed eccoci di nuovo a Kathmandu. Prendiamo il taxi e per la strada lasciamo il nostro ufficiale, con tanto di baciamano
finale, e quindi arriviamo al Marshandi; c’è un problema tecnico, manca l’acqua, e ci dirottano al Buddha hotel,
che si dimostrerà una buona alternativa, soprattutto per la gentilezza del personale. Finalmente una doccia calda,
dopo dieci giorni di salviettine umidificate e disinfettante per le mani, rinominato spermicida. Puliti e rifocillati ce
ne andiamo a spasso per Thamel, lanciandoci in acquisti, riesco anche a trovare il CD di Resam Piriri, la canzone nepalese
che Lhakpa aveva tentato di insegnarmi per tutto il trekking. Con Anna facciamo una puntatina nella zona dove vendono i
sari, da utilizzare come tende per il suo appartamento di Milano. Con il risciò attraversiamo una parte meno
turistica della città, ammirando la bellezza degli edifici, delle decorazioni e la straripante umanità. Alle
cinque ci facciamo portare a Pashupatinah, il posto più sacro della città, nel quale si effettuano le
cremazioni. Il fiume, rispetto alla mia visita precedente, è quasi completamente a secco, ma il posto ha lo stesso un
grande fascino; visitiamo i templi di Shiva sovrastanti, con le scimmie che si aggirano tra le statue, i buoi che pascolano
tra i lingam; ritorniamo ai ghat ed assistiamo a distanza ravvicinatissima ad una cremazione. La pira di legno è
stata già preparata, il cadavere è stato portato tutto avvolto in una stoffa gialla e ricoperto di fiori.
Arrivano i parenti, c’è una donna che piange disperatamente, probabilmente il morto era il marito. Poi arriva un
sacerdote, che toglie alcune tele dal cadavere e le getta nel fiume sacro. Per ultimo scopre il viso che si rivela essere
quello di una giovane donna. Le vengono messi degli oggetti sulla bocca e tra lo strazio dei presenti, la salma viene
deposta sulla pira. Alcuni giovani ragazzi girano meccanicamente intorno al cadavere, dopodiché vengono accesi tre
fuochi uno sul viso e due subito sotto il corpo, che viene prontamente ricoperto con fascine infiammabilissime, che dopo
pochi secondi ardono verso il cielo. A questo punto ci allontaniamo, mi sembra di rubare qualcosa al dolore ed alla
compostezza di quella persone, di violare la loro intimità. La pira continuerà ad ardere lentamente fino a
quando non rimarrà che cenere, che verrà tutta quanta gettata nel fiume, avendo cura di lavare completamente
il ghat, così che non rimanga più nulla. Giriamo per le belle vie intorno al grande complesso religioso e
nella bella atmosfera del tramonto, getto sguardi indiscreti nelle case e nei negozi, mentre gli abitanti si preparano per
la cena. Rientrati in città andiamo a prenderci un aperitivo al Full Moon, un bel localino che si potrebbe trovare
anche qui in Riviera, e ci lanciamo con i cocktail: Daiquiri e Margarita. Ne usciamo un po’ brilli e ci rechiamo a cena in
un ristorante tailandese, uno dei migliori della città. Mangiamo benissimo, anche se la cucina è molto
piccante, il conto è meno di quindici euro a testa per una cena di dieci portate. All’uscita siamo ancora più
sbronzi, crollo immediatamente sul letto.
2-3 maggio, in volo
Ultima giornata a Kathmandu: la mattina ci facciamo portare a Patan, una delle tre città reali della valle. La
Durbar Square è stupenda; rispetto alla volta precedente molti edifici sono stati restaurati, però non c’è
più il mitico santone vestito di giallo con il tridente di Shiva nella mano ed un cobra nel grembo. Ci perdiamo nei
vicoli di Patan, continuamente rapiti dalla bellezza dei posti e dalle situazioni: donne variopinte che lavano i panni,
uomini che tagliano la legna, badano ai negozi, vecchini che chiacchierano davanti all’ingresso dei templi. Si potrebbe
camminare per ore senza annoiarsi; andiamo a visitare il museo di Patan, aperto recentemente in uno splendido palazzo che
da solo vale il prezzo del biglietto. Le collezioni di arte sacra induista e buddista sono meravigliose, ci sono pezzi di
valore inestimabile, perfettamente valorizzati dalla perfetta esposizione museale, realizzata da esperti austriaci.
Rientriamo a Kathmandu, Anna e Roberta vanno a Bodnath ad incontrare un famoso lama. Io continuo a gironzolare nella parte
meno turistica della città, senza meta, lasciandomi trasportare dal ritmo della città. Ritorno in albergo, e
nell’ultima ora rimasta riusciamo a spendere tutte le ultime rupie rimaste nei magnetici negozietti di Thamel. Si va in
aeroporto ed alle otto e trenta parte puntuale l’aereo per Doha; è strapieno di piccoli nepalesi spaesati, emigranti,
povera manodopera per i ricchi paesi arabi. In compenso il volo successivo per Francoforte è praticamente vuoto, ci
sono più hostess che passeggeri, tra cui una ridicola madre con figlio, che indossano la mascherina anti-Sars.
Mi sdraio su cinque posti e dormo beatamente. La mattina dopo giungiamo a Francoforte; in volo fino a Verona, ed da qui in
treno a Milano, Savona, Spotorno dove arrivo intorno alle cinque del pomeriggio. Vado a casa e mi affaccio dal balcone: il
mare è azzurro come il cielo del Mustang.
Michele Buzzi
Per informazioni su questo ed altri viaggi, il sito di Michele: Oltre il viaggio
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ultimo aggiornamento 20/10/2021