19-20 Aprile, Kathmandu
Spotorno, Genova, Milano, Londra: nell’immenso aeroporto di Heathrow il mar Ligure è ormai molto lontano, eppure sono
passate solo poche ore, due treni, un pullman ed un aereo. Ma dove vai, c’è la guerra, c’è la Sars, la
polmonite atipica, ma il Mustang non è il nome di un cavallo? Ma non ci sei già stato in Nepal?
Non ho detto a nessuno che volavo con la Qatar Airways con scalo a Doha, la città sede del comando americano e della
televisione Al Jazira. A Londra incontro Roberta ed Anna, e dopo attenta perquisizione saliamo sul grande e nuovissimo
airbus della compagnia araba. Aereo mezzo vuoto, ma chi vuoi che vada a Doha di questi tempi? Meglio, ci si può
sdraiare e dormire. Quando mi sveglio stiamo sorvolando il deserto della penisola arabica, sullo schermo compare anche
Baghdad. Mi aspettavo tutti sul piede di guerra ed invece nell’aeroporto scintillante e lussuoso di Doha non ci sono nè
marines nè Lilligruber d’assalto, che delusione, il mio primo reportage dal fronte. Si vedono invece arabi tutti
vestiti di bianco con in testa il loro copricapo a tovaglia, ci sono donne velate. Dopo un’ora ci imbarchiamo per Kathmandu,
insieme a qualche turista e pochi altri. Mi sdraio e dormo. Alle quindici ora locale atterriamo nella capitale nepalese, il
ricordo è ancora vivissimo, il mio primo viaggio in Oriente. Bisogna fare il visto e recuperati i grossi bagagli con
zaino, tenda, materassino,sacco a pelo; usciamo. L’aria è luminosa e pulita, facciamo fatica a trovare un taxi ad un
prezzo ragionevole, c’è un grosso sciopero in corso in città. Man mano che ci dirigiamo verso il centro e la
zona turistica di Thamel, l’aspetto della città è quasi irreale, almeno rispetto i miei ricordi precedenti.
Neanche una macchina in circolazione, silenzio, pulizia, sorprendentemente tutti i negozi sono chiusi. Il taxi ha paura di
inoltrarsi nelle vie di Thamel, ci parla di uno sciopero degli studenti che a suo dire sarebbe molto violento. La
città ha uno strano aspetto, a metà tra quello di una domenica ecologica a piedi e quello precedente una
manifestazione di noglobal. Ci dobbiamo perciò spingere a piedi con gli zaini in spalla fino all’ hotel Marshyangdi
dove Roberta è di casa; mi sistemo in una bella camera. La zona di Thamel è quella dove si trovano la maggior
parte degli alberghi, ristoranti, negozi di souvenir, locali ed ha un aspetto molto carino, un po’ esotico ed un po’
fricchettone. La mancanza di auto e di traffico ne migliora di molto l’aspetto, e quando ci rechiamo in compagnia di Lhakpa
presso l’agenzia che ci ha organizzato il trekking, alcuni negozi stanno riaprendo. In agenzia paghiamo il pattuito,
lasciamo i passaporti e le foto, ed usciti decidiamo di recarci presso lo stupa di Bodnath, luogo buddista tibetano tra i
più importanti e belli di Kathmandu. Il lungo tragitto in risciò, mi permette di immergermi nella vita della
città all’ora del tramonto, con i bambini che giocano a cricket, gli uomini che parlano, le donne che lavano, i
contadini che tornano dai campi. Quello che colpisce dei nepalesi è il loro sorriso, la loro stupenda serenità
qualunque cosa stiano facendo; è naturale pensare alle facce perennemente immusonite ed arrabbiate che si incontrano
nelle nostre città, al nostro essere perennemente incattiviti con il prossimo. Sta qui il fascino di questa città,
negli squarci di vita che si aprono improvvisamente, come il tempietto nascosto con i suoi riti e i suoi colori accesi, il
laghetto con le donne che attingono l’acqua per la casa, le vacche che pascolano accanto al palazzo reale. Quando giungiamo
a Bodnath il sole è tramontato, ma posso ancora ammirare lo spettacolo di questa enorme cupola bianca, sormontata da
una torre sui quattro lati della quale ci sono i tre occhi del Budda che ti seguono ovunque, tra il tripudio delle
bandierine di preghiera che scendono verso terra. Compio il rituale giro in senso orario tra le migliaia di pellegrini che
vengono qua al tramonto a pregare. E’ un posto davvero magico, che mi ricorda tanto la Shwedagon Paya a Yangoon in Birmania,
il tempio buddista più bello che abbia mai visto. Al ritorno il guidatore del mio risciò fatica un po’ a
pedalare e scende più volte a spingere; rientriamo a Thamel mentre la città si sta svuotando e spegnendo. A
cena ci sono tre amici italiani di Roberta, e mangiamo molto bene sulla terrazza di un bel ristorante indiano. Mi viene in
mente un libro che ho letto di recente di un ragazzo australiano che viaggia da Londra a Sydney; scrive della capitale
nepalese che i viaggiatori non vengono a Kathmandu per la spiritualità e nemmeno per le magliette ricamate: vengono
qui perchè è l’unico posto in un raggio di cinquemila chilometri dove è possibile mangiare
decentemente. Dopo cena visitiamo la casa di Siliana, una bolognese che si è fatta monaca buddista, si è
trasferita qui e gestisce e dirige una casa di meditazione.
21 Aprile, Pokhara
Alle otto e trenta siamo già a fare colazione, nel bellissimo giardino dell’ hotel. C’è ampia scelta ed opto
per una colazione ipercalorica, cercando di accumulare riserve di grasso per l’imminente trekking; c’è un cuoco
addetto alle sole uova, mi faccio preparare scramble eggs che guarnisco con salsiccia e pomodorini cotti. L’ambiente è
molto carino, la giornata bella e soleggiata. Purtroppo lo sciopero è finito e per Kathmandu hanno cominciato a
circolare nuovamente le macchine, rumorose ed inquinanti come in ogni città del terzo mondo che si rispetti. Sono
ricomparsi anche quei simpatici omini che vendono il balsamo tigre, un unguento miracoloso che durante il mio primo viaggio
in Nepal cercavano di appiopparmi ovunque. La mattina è dedicata alle ultime compere, a quelle cose che avevo deciso
di acquistare qui per risparmiare, dopo aver dilapidato un patrimonio nel bellissimo negozio di articoli tecnici di
Finalborgo. Al termine della mattinata, dopo le solite faticose contrattazioni ho acquistato: il bastoncino da trekking
supertecnico con la molla dentro, una borraccia svizzera ed un paio di pantaloni. Con Anna riusciamo anche a trovare il
tempo di gironzolare un’oretta per Durbar square, la piazza reale con i suoi templi, la casa della Kumari (la dea vivente
bambina, che ridiventa umana al sopraggiungere delle mestruazioni), Freak street e la sua umanità di venditori
implacabili, suonatori, santoni; ci imbattiamo anche in un matrimonio con tanto di banda al seguito. Alle due siamo di nuovo
in albergo, ad aspettare l’incaricato dell’agenzia con i biglietti ed i permessi. Si presenta alle due e tre quarti e
dobbiamo ancora recarci stipati in un minuscolo taxi al Ministero del Turismo, dove ritiriamo il famoso trekking permit,
valido per dieci giorni nell’area ad accesso limitato del Mustang. Il costo è davvero alto, pari a 700 dollari,
chissà se è davvero un posto così magico e fuori del mondo? Arriviamo all’aeroporto, ed il terminal dei
voli nazionali non è davvero invitante, sporco e fatiscente, il piazzale di ingresso non è nemmeno asfaltato.
Le operazioni di check-in sono momentaneamente sospese a causa della pioggia che sta cadendo. La nostra compagnia aerea si
chiama Gurkha Air; avremmo tutti preferito volare con la confinante Buddha Air. Finalmente facciamo il check-in e dopo
l’ennesima perquisizione fisica entriamo nella sala d’aspetto. Ha smesso di piovere ed appaiono come per incanto sullo
sfondo della pista le cime innevate dell’Himalaya. Conosciamo il nostro ufficiale di collegamento, ossia quella persona del
Ministero che deve vigilare affinché vengano rispettate da parte nostra tutte le regole di comportamento previste
nelle aree protette. E’ un signore con i baffetti e la faccia simpatica, vestito normalmente e con le scarpe da trekking.
Finalmente giunge il nostro aereo, un piccolo Dornier da venti posti, tutti accanto al finestrino, anche se purtroppo il
cielo coperto non permette di ammirare il panorama delle montagne innevate. Partiamo alle sedici e tre quarti, la hostess
ci porge una caramella e l’ovatta per le orecchie; dopo mezzora di volo tranquillissimo siamo a Pokhara. Ci aspetta Lhakpa
ed andiamo a sistemarci in un alberghetto. La città di Pokhara è famosa per essere il punto di partenza dei
trekking più famosi, in particolare di quelli sull’Annapurna, ed è una cittadina adagiata su un bel lago
circondato da montagne verdissime. Il paese consiste in una via che costeggia il lago, sulla quale sorgono alberghi,
ristoranti ed infiniti negozietti stile Thamel. Gironzoliamo fino alle otto, quando ci rechiamo a cena in uno splendido
ristorante situato in un giardino direttamente sul lago; c’è pure uno spettacolo di danze nepalese. Purtroppo fatta
l’ordinazione aspettiamo per più di un’ora, è dalla mattina che non mangiamo niente, e questo rovina un po’
la cena che non è malaccio. Ultimi acquisti al supermercato, acqua, sapone, una tazza azzurra, e poi in hotel. Domani si
comincia.
22 Aprile, Kagbeni
Sveglia alle cinque e trenta ... oddio perchè sono qua, voglio essere nel letto a casa mia - un black tea di corsa
ed alle sei siamo di nuovo in aeroporto. La giornata è splendida e finalmente possiamo ammirare sopra Pokhara
l’enorme massiccio dell’Annapurna e la splendida sagoma del Fish Tail, il Machapucchare, un enorme Cervino di oltre
settemila, montagna sacra a tal punto di non averne mai permesso la scalata ad alcuna spedizione. Alle sei e quaranta siamo
di nuovo a bordo del piccolo Dornier per l’ultimo volo prima del trekking; è il più bel volo della mia vita,
sfiorando le montagne più alte del mondo, tutte scintillanti ed innevate che si elevano ben al di sopra della quota
di volo, sembra quasi di toccarle, e sono rapito dalla loro immensità e dal loro candore, avrei voglia di urlare per
la gioia, di gridare tutta la mia felicità di fronte ad un tale spettacolo della natura. Quasi mi dispiace atterrare
nel piccolo aeroporto di Jomson da dove avrà inizio il trekking. Si tratta comunque di una bellissima pista di
atterraggio per la sua posizione naturale, dominata dall’immensa mole della montagna del Nilgiri, il cui enorme biancore si
staglia contro un cielo azzurrissimo. Siamo già a duemilasettecento metri di altitudine e ci incamminiamo per l’unica
via di Jomson, con case in stile tibetano, e graziose guest house. In un alberghetto, Lhakpa, la nostra guida sta
approntando gli ultimi preparativi; facciamo conoscenza con i portatori, partiti quattro giorni fa a piedi da Pokhara, che
oltre ai nostri zaini dovranno trasportare tutto l’occorrente da campo, incluse le provviste. Ricapitolando oltre a noi tre,
ci sono sei portatori, il cuoco, la guida sherpa e l’ufficiale di collegamento. Siamo dodici in totale. Intorno alle otto e
venti siamo in moto, sprizzo gioia da tutti i pori. Il sentiero costeggia la valle del fiume Gandaki, in nepalese Kali
Gandaki, in questa stagione il fiume è in secca. La valle è bianca e ghiaiosa e contrasta con le montagne che
la circondano; un bellissimo paesaggio ed un sentiero molto facile che si inerpica solamente per raggiungere un lungo ponte
sospeso che serve a scavalcare il fiume. Sulla sponda opposta si intravede la valle verdissima dove sorge la città di
Kagbeni, nostra meta odierna. Ci fermiamo nel minuscolo paesino di Eklabatti, anch’esso un avamposto turistico con simpatici
alberghetti dal nome Hillton, Holyday Inn e c’è anche l’immancabile Monar. Ancora un’ora di cammino e poco prima di
mezzogiorno siamo a Kagbeni, dove entriamo. Una donna che sta tessendo mi chiede venti rupie per farsi fotografare, non
corrompiamoli dice Anna, sono già corrotti dico io, pago e fotografiamo. Arriviamo nel cortile di una casa dove
piantiamo le tende, aiutati dallo "staff tecnico". Ci andiamo un po’ a riposare mentre si sta alzando il famoso vento del
Mustang, con la mia tenda aperta che fa effetto vela. Arriva Lhakpa con il pranzo, che consiste in patatine fritte, buone,
e pesce in scatola. Usciamo a fare un giro per il paese, e ci dirigiamo verso il gompa rosso che domina la città.
Da poco tempo si può anche visitare e saliamo fino alla sala interna, dove il monaco ci mostra libri antichissimi, di
oltre settecento anni fa, scritti in sanscrito con caratteri tibetani in oro: sono i 108 volume del Kanjur, la Bibbia
buddista. Il monaco ci dice tra l’altro che il Nepal, il Tibet sono paesi poveri, con gente ricca di cuore, mentre i paesi
europei sono ricchi, ma gli abitanti sono poveri di cuore. Saliamo sulla terrazza del tetto, dal quale si gode una
meravigliosa vista sulla valle del fiume, sull’altissimo Nilgiri, e sull’antico villaggio costruito in pietra che ricorda
molto i nostri paesi medievali dell’Alto Lazio. Ci inoltriamo tra le stradine, tra i muri costruiti con pietre a secco e
scene di vita quotidiana con donne che stanno lavando i grossi pentoloni in rame. Ci sono anche bambini che chiedono con
insistenza penne e caramelle. C’è un bellissimo muro, con una fila interminabile di ruote della preghiera. Al termine
c’è il check point per l’ingresso nel Mustang. Da qui in poi in poi serve il permesso speciale, quello costosissimo
da settecento dollari per dieci giorni; facciamo un giro al centro visitatori, dove ci sono foto e spiegazioni sulla
cultura e storia del Mustang. Ci sono anche le statistiche dei visitatori che si sono inoltrati nel regno proibito. I numeri
ci inorgogliscono, solo 562 visitatori nel 2002, di cui 92 italiani, e 8.328 dall’anno di apertura il1992 fino al 2001, di
cui 689 connazionali. Quest’anno dal registro non risulta ancora nessun italiano: evviva, siamo i primi! Alle quattro e
mezzo il sole è già dietro le alte montagne e ci rechiamo a prendere il tè in un localino carino
dall’insegna German Bakery. E’ quasi buio quando ci rechiamo alle tende; nella casa, il cui cortile-stalla ci ospita,
consumiamo la nostra cena. Non è proprio da gourmet: riso in bianco, verdure e pollo lesso, il tutto a lume di
candela. In compenso la stellata che ci aspetta ci ripaga da ogni sacrificio; alle nove sono già dentro il sacco a
pelo.
23 Aprile, Samar
La mattina presto fa freddo dentro la tenda, ci avevano preavvisato che le temperature potevano scendere sotto lo zero,
domani sera mi metterò anche il pile per dormire. Alle sei mi svegliano con una tazza di tè fumante, tea sir,
alle sei e trenta le tende sono smontate e facciamo colazione con un misero ovetto. Dopo un’ora partiamo, ci registriamo
con orgoglio al punto di controllo, e finalmente mettiamo piede nel mitico regno del Mustang. Scendiamo nella valle del
Kali Gandaki, e ne seguiamo il corso controcorrente. Mi giro e la vista di Kagbeni con il suo monastero rosso e sopra ancora
l’enorme mole del Nilgiri è uno spettacolo di quelli che si ricordano per tutta la vita. Il cammino è molto
facile tra le pietre del fiume; tra questi si nascondono molti fossili, le nere ammoniti; il nostro ufficiale di
collegamento è quello che ne trova di più, lui che dovrebbe controllare il rispetto delle regole; comunque
sarà con noi tutta la giornata dimostrandosi affabile, socievole e molto simpatico. Per non dove guadare il fiume
come i cavalli, e non togliersi le scarpe ci dobbiamo arrampicare su una parete di roccia, con il rischio di scivolare giù.
Poi si comincia la salita sotto un sole implacabile, che ci costringe in maglietta e pantaloni corti, mentre saliamo lungo
il versante destro della valle. Arriviamo in vista del paese di Tangwe, situato su uno sperone di roccia e circondato dal
verde dei terrazzamenti strappati all’aridità diffusa, tramite canalizzazione di piccoli corsi d’acqua. All’ingresso
di Tangwe ci sono tre chorten, dopodiché si entra nel paese molto bello anche se sembra quasi disabitato. Le case
sono dipinte con i colori rosso, bianco e nero tipici dell’etnia Gurung che lì vive. E’ straordinario il contrasto
dei colori delle case con il verde delle coltivazione di orzo, il grigio del deserto, il bianco dei monti e l’azzurro del
cielo. A mezzogiorno arriva puntuale come un treno svizzero il temuto vento del Mustang. Si continua con il saliscendi ed
alle dodici e mezzo arriviamo al paese di Chuksang dove ci fermiamo per pranzare in una casa locale e riposarci un po’ dopo
la nostra razione di chapati, tonno in scatola e piselli. All’una e venti siamo di nuovo in marcia e ridiscendiamo fino al
livello del fiume, dove camminiamo un po’ sulla sabbia; Lhakpa e l’ufficiale continuano a trovare fossili tra i ciotoli del
fiume. Siamo a quota tremila e giungiamo alla base di un ponte di recente costruzione che scavalca il fiume. Il paesaggio
è cambiato e la valle ha preso le forme di un canyon con ripide pareti rosse; in alto vi sono molte cavità
scavate nella rocce, ed utilizzate in passato da eremiti. Dopo il ponte comincia la salita verso Chele, molto ripida e
faticosa, anche se ampiamente ripagata dalla bellezza del canyon. A Chele ci fermiamo per riposarci ed ammiriamo il bel
villaggio tibetano, e gli anziani raccolti nella piazza principale tutti intenti a chiacchierare. Si riprende la salita
attraverso un paesaggio arido e spettacolare, costeggiando la parete del canyon che è sempre più imponente e
selvaggio. Dall’altra parte del canyon c’è il bianco villaggio di Giekar circondato da terrazzamenti degradanti
verdissimi. La salita mi mette a dura prova, si sale sempre e dopo ogni curva si vede sempre una nuova salita ed un nuovo
passo da oltrepassare. In tutta la giornata abbiamo incontrato pochissime persone, a piedi e a cavallo, comprese alcune
piccole carovane che trasportano merci. Dopo quasi due ore di salita il sentiero sale un po’ meno rapidamente e finalmente
raggiungiamo il Dzon La Pass dove c’è il classico cumulo di pietre rituale e propiziatorio. Il panorama delle
montagne è diventato ancora più spettacolare, si vede una cresta ininterrotta di montagne tra cui il solito
Nilghiri ed altre nitidissime sull’orizzonte. Il sentiero procede in piano e svoltata la curva giungiamo in vista della
meta della giornata, il villaggio di Samar a tremilasettecento metri di altezza; è stata una bella sfacchinata. Il
sole si è celato dietro l’orizzonte, ma le montagne ancora illuminate e dai colori rosati, sono uno spettacolo
stupendo ed una splendida cornice del graziosissimo villaggio. Ci sistemiamo nel cortile-gallinaio di una bella casa, dove
i portatori arrivati prima di noi ci stanno montando le tende. Mi sento un po’ schiavista, ma vista la stanchezza sono
contento. Mi stendo sul materassino autogonfiabile, riesco ad alzarmi solamente per un’ultima foto allo spettacolo delle
montagne. Alle sette c’è la cena e questa sera dopo il brodino ci sono le trofie con il pesto che ho portato da
Spotorno. Sapori di casa, finalmente una buona cena, anche il dessert di mele fritte è buono.
24 Aprile, Chyunka
Durante la notte c’è un cane chiuso nel nostro recinto che abbaia in continuazione. Sveglia alle sei, colazione e
partenza alle sette e trenta da Samar. Non riesco a staccare gli occhi dalla catena di monti che incornicia tutto il
paesaggio, ancora più bello con la luce mattutina. Oggi a detta di Lhakpa è la giornata più faticosa
del trekking e su nostra richiesta (come al solito quando le donne si mettono in testa una cosa è difficile farle
cambiare di opinione) abbiamo inserito un fuori programma alle grotte di Ranchung. La giornata sarà un lungo
alternarsi di saliscendi molto impegnativi. Una prima lunga discesa e successiva ripidissima salita in paesaggio arido e
pietroso. Il sentiero si mantiene per un po’ pianeggiante e poi una seconda tremenda salita che non finisce mai e ci porta
fino alla quota di tremilasettecento. Ci troviamo su un altopiano che si affaccia sul canyon ed il sentiero corre a
strapiombo sul ciglio per parecchio. E’ impegnativo rimanere con i piedi per terra e non scivolare nel burrone; per
esorcizzare la paura cantiamo alcune canzoni di Mina. Dopo esserci cullati nell’idea di poter rimanere in quota ci troviamo
di fronte ad una discesa, che in una stazione sciistica sarebbe chiamata pista nera. La scesa è rapidissima e porta
fino al sottostante fiumiciattolo, quota tremilatrecento, che forma anch’esso un canyon con rocce spioventi. Arrivati
finalmente in fondo, mi bagno i piedi nudi nelle acque gelide del fiume, con grande sollievo! Roberta ne approfitta per
fare anche lo shampoo, visto la nostra igiene personale a dir poco inesistente. Di qui un’altra salita ci porta alle grotte
del Ranchung Chorten, che significa "non costruito dall’uomo". E’ tra i posti più sacri dell’intero
Mustang, bussiamo e ci viene ad aprire un vecchino. La grotta è molto grande ed al centro ha un pilastro naturale.
Facciamo un giro rituale in senso orario per osservare da vicino le statue, ammirando le decorazioni e le misteriose statue
"non costruite dall’uomo". Il posto è suggestivo, si mischiano in un insieme armonioso la vista del
canyon, le bandiere delle preghiere e le innumerevoli sciarpe bianche che pendono dal soffitto. Ridiscendiamo di nuovo al
fiume per cominciare una salita da incubo arrampicandoci lungo la parete del canyon. La salita ci mette un po’ tutti in
crisi, compreso Lhakpa e l’ufficiale che è sempre con noi. La salita si fa più dolce, ci fermiamo e poi
l’ultima tirata fino alla casa dove ci fermiamo per mangiare. Sono le dodici e quaranta e siamo nel villaggio di
Shyammochen, in realtà poco più di due case. Quella che ci ospita è bella all’interno, con un lato
occupato dai letti, alla cinese, il focolare al centro ed una parete con gli armadi che contengono tutta l’attrezzatura da
cucina. Anche la famiglia che ci ospita è molto carina; Lhakpa tira fuori dal suo zaino il solito chapati ed il
tonno, e questa volta ci sono anche i fagioli. Per fortuna troviamo anche da bere, la borraccia era già vuota da
parecchio. Alle tredici e trenta siamo di nuovo in marcia. Poca salita e siamo al passo di Shyammochen, a tremilaottocento
con una bellissima bandiera rituale, e che si affaccia su un paesaggio maestoso ed infinito, che sembra non avere fine;
ricorda molto la Monument Valley. Nella vastità si distingue il villaggio di Cheling, con le case bianche ed i templi
rossi che dominano il paese. La deviazione sarebbe troppo impegnativa fisicamente, chissà al ritorno. Incontriamo un
gruppo di donne in abito tradizionale nero e con la gonna a quadri, con al collo i monili di turchese e corallo fossile. Mi
ritorna alla mente il mio mitico viaggio in Tibet di qualche anno fa. Le donne si fermano, ridono, ma non vogliono farsi
fotografare. Si continua la strada ormai senza difficoltà, passiamo nel villaggio di Tamagoon, ma Lhakpa ed i
portatori vogliono andare oltre. Alle tre e mezzo siamo a Chyunka, bel paese dominato da un grandissimo stupa arancione, che
spicca tra il verde delle coltivazioni. Piantiamo le tende finalmente su un morbido prato, con vista spettacolare sullo
stupa e sulle montagne; dalla parte opposta il solito ed immancabile gallinaio. Alle sei e trenta, infreddoliti dentro la
tenda ci chiamano per la cena: zuppa, riso con verdure, e dei buoni panzarotti al formaggio. Mangiamo all’interno della casa
che ci ospita, la casa è povera anche se il quadro familiare è molto carino, ci sono anche tutti i bambini del
vicinato. Sopra la stufa sono appesi pezzi di carne secca essiccata. Ci guardano con curiosità; la padrona di casa
allatta un bambino di sei mesi, il suo secondo dopo una bellissima bambina. L’atmosfera è molto accogliente e tranquilla.
25 Aprile, Tsarang
Alle sette siamo a fare colazione; la signora è già tutta presa dalle faccende domestiche; in un grosso
pentolone sta preparando il dhindo, un specie di polenta a base di farina d’orzo. Ormai siamo in confidenza e scattiamo
parecchie foto, specialmente ai bambini. Alle otto ci mettiamo in marcia e dopo non molto ci aspetta il primo passo da
valicare; la salita è impegnativa, ma riusciamo ad arrivare in cima tutto di un fiato, senza fermarci mai. Il passo
di Nye La è a quattromila metri, e c’è la solita altissima bandiera ed il mucchio rituale di pietre.
Riprendiamo il cammino molto agevole fino a giungere in vista della prima meta della giornata, il villaggio di Ghemi a
tremilasettecento. Il colpo d’occhio è molto bello, i colori sono quelli tipici, il bianco ed il rosso. Intorno alle
dieci e tre quarti siamo al chorten che segna l’ingresso al paese. Il primo impatto è molto bello, sembra di aver
fatto un salto indietro nel tempo, le strade non sono asfaltate, le case sono tibetane, a due piani, dalle belle finestre
colorate. Ci rechiamo in una bella abitazione per il pranzo; la grande casa appartiene alla sorella del re del Mustang; ha
un patio all’interno nel quale si riposano i portatori. Saliamo al piano superiore ed in una stanza arredata alla cinese ci
viene servito il pranzo, che in nostro onore consiste in una bella pizza alla nepalese, calda fumante, davvero niente male.
Nella stanza spicca il calendario degli eroi comunisti, da Mao a Che Guevara, da Rosa Luxenbourg a Kim Il Sung, ci facciamo
delle belle risate. Usciamo a spasso per Ghemi, le persone ed i bambini ci guardano incuriositi, alcune donne ci chiedono
medicine. Raggiungiamo il gompa più importante, anche se ormai non vi sono più monaci. Si chiama, per la
cronaca, almeno così è scritto sul biglietto Geme Shad Drup Darkeling Gompa. Le pareti interne sono
interamente affrescate ed ancora in buono stato di conservazione. Ci sono libri di preghiera antichissimi ed un chorten
reliquario di un famoso lama. Il villaggio di Ghemi è davvero affascinante nella semplicità dei suoi abitanti
e nella totale mancanza di "modernità". Riprendiamo il cammino e scendiamo fino al fiume Khola che lambisce la
città; si attraversa il fiume su un ponte in ferro sospeso e si riprende la salita. Dopo poche centinaia di
metri si trova un lunghissimo muro Mani, sul quale si trovano migliaia di pietre sulle quali sono scolpite le preghiere. Il
muro si allunga in salita per centinaia di metri, completamente ricoperto di mantra e raffigurazioni sacre. La strada
continua in salita in un paesaggio desertico sterminato, con formazioni rocciose dalle forme più bizzarre, lo spazio
si estende quasi infinito, il silenzio è rotto solamente dal rumore del vento, all’orizzonte non si scorgono
nè persone nè altri esseri animati. Bistari bistari dice Lhakpa, lenti lenti camminiamo verso il secondo
passo della giornata che appare in alto irraggiungibile. Incontriamo una carovana di cavalli che trasportano le merci verso
sud, alcuni sono bardati, altri senza sella. Poco prima delle tre siamo in cima al passo di Tsarag La, a quota tremilanove,
dove lo sguardo spazia sulle due valli infinite. Discendiamo con le gambe che vanno ormai da sole, senza alcun sforzo; che
spettacolo viaggiare senza essere sopra un auto o un pulmino scassato, che emozione scoprire il Mustang passo dopo passo:
l’apparizione di Tsarang é come un miraggio. Adagiato in una valla immensa, preceduta dal verde dei campi coltivati,
le bianche case sparse come chicchi di riso e le due moli del gompa sulla destra e del palazzo reale sulla sinistra. E’ un
sogno: attraversiamo il grande chorten arancione, porta di accesso della città che attraversiamo per fermarsi presso
una bella casa, sul tetto della quale sono state montate le nostre tende. Davvero "tenda con vista", i palazzi
ed i templi, i chorten sono a pochi metri e fanno capolino tra la legna accumulata sul tetto, come in ogni casa del
Mustang. La legna è un bene preziosissimo in una regione priva di vegetazione, e viene immagazzinata sul tetto per
fronte ai durissimi inverni. Usciamo per visitare il grande gompa che domina la città, l’ingresso è preceduto
da una lunga scalinata. Qui ci accoglie un monaco che ci accompagna nella visita del Gompa Charay Dorgee Dham. Su una prima
metà parete le pitture sono state restaurate ed hanno colori molto vivaci, le rimanenti attendono di essere rimesse a
nuovo, anche se sotto la patina del tempo si intravedono pitture di straordinaria fattura. Il monaco orgoglioso ci porge il
suo biglietto da visita. Nei cortili ci sono ragazzi che giocano a pallone; andiamo nella parte dove un tempo vivevano
le monache, ora in completo abbandono. Il tetto del tempio è crollato e tutti gli affreschi sono esposti alle
intemperie ed ormai irrimediabilmente compromessi. Fa freddo, rinunciamo alla visita del palazzo reale, anch’esso in
completo abbandono e rientriamo per la cena, a base di noodles e fagiolini.
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ultimo aggiornamento 20/10/2021