Un regalo alla Patagonia, nel limite delle mie possibilità.
Un modesto contributo affinchè la Patagonia sia un poco più conosciuta.
Sperando, però, che rimanga sempre così come è, almeno nello spirito.
E´un regalo molto più piccolo di tutto quanto la Patagonia fa a chi la conosce e cerca di capirla.
Tutto quanto raccontato è assolutamente vero.
La vera importanza delle cose
Lì, nel cuore della Patagonia non vive di certo molta gente.
Ci troviamo nel mezzo di pianure quasi sempre ondulate, di colline, che diventano sempre più montagne andando verso
la cordigliera andina. Siamo immersi in spazi aperti che fanno vedere orizzonti lontani, ancor più lontani grazie
all’aria sempre limpida. Non si tratta di orizzonti monotoni. Generalmente sono abbastanza vari, però danno l’idea
dello infinito tutto uguale. Tanto che se ci spostiamo in un punto qualunque di questo orizzonte, anche da lì,
la vista sarebbe praticamente la stessa tutto all’intorno.
Si tratta di campi nudi e rocce allo scoperto, che a volte sono loro che sembrano facciano a gara per mostrare i colori
più vivi e le forme più strane.
Terra di nessuno, senza limiti. Almeno così sembra.
Il clima è semiarido. Piove molto poco e la vegetazione è specialmente adattata a questo clima; a lottare con
il vento che è considerato come un elemento essenziale della Patagonia. Però vi sono pure lunghi periodi senza
il minimo alito, con un silenzio regnante, che rimane anche questo impresso come un ricordo indelebile. L’aria è
sempre limpidissima; anche se fa freddo il Sole scalda. Soprattutto al Sud, d’inverno, tutto ciò che è acqua,
ghiaccia. Possiamo avere i 20-30 gradi sotto zero, però, soprattutto in estate, possiamo avere giornate con veramente
tanto calore. E' quel tipico clima, come d’alta montagna, ove molte volte anche se c’è freddo, non lo si sente.
La vegetazione è sempre diradata ed a livello del suolo; soprattutto più a sud gli arbusti sono pochi e piccoli.
Non ci sono alberi, a meno di quei pochi che sono riusciti a sopravvivere, tra i pochi piantati dall’uomo intorno alle
rarissime estanzie, il più delle volte abbandonate (si tradurrebbero fattorie. Però
questa parola ha ben poco a che vedere con ciò che è una estanzia).
Anche questa vegetazione contribuisce al senso di spazi aperti della Patagonia, a quella definizione della Patagonia che
danno praticamente tutti coloro che, venendo da altre parte del mondo, la visitano e ne capiscono qualcosa, che nella
Patagonia infinita non c’è nulla. E questo fin dai secoli passati, a partire dallo stesso Darwin.
Ove tutto è infinitamente grande, però tutto il piccolo è di estrema importanza.
La Patagonia prende tutti nei suoi spazi senza fine. Non solo lo scienziato che la visita con un bagaglio di cultura e di
educazione e che, però, per cercare di capirla, deve addentrarsi senza presunzione e con molta modestia. Questo,
molte volte è l’errore più grave di chi la visita che, allora, se ne andrà credendo di aver capito tutto;
e ciò è quando non ha capito nulla. Mai si può capire tutto della Patagonia. Si può capire sempre
di più, poco a poco. E spiegarlo sarà molto difficile; per capirla sarà necessario andarci a vivere.
Occorre andare in Patagonia non per mostrarsi e per poter dire di esserci stati; però con lo spirito aperto a cercare
di capirla. Ed allora essa ci insegnerà tanto, la vera importanza delle cose; ci insegnerà tanto anche di noi
stessi. Poi il fatto di poter raccontare di essere stati in Patagonia, questo deve essere la cosa meno importante e, se la si
capisce, quasi viene voglia di non farlo. Dicevo che la Patagonia prende tutti in una forma spontanea ed instintiva. Anche
all’uomo di campo, anche al paesano. Così si chiamano tra loro i pochi patagonici che vivono nei pochi e
piccoli paesi, sempre molto distanti l’uno dall’altro.
Io, come geologo, ho girato molto nella Patagonia del Nord, del centro e del Sud. Ormai posso dire che vi ho passato vari
mesi. Ovviamente moltissimo mi resta da conoscere, molto di più di quanto già conosco. Ogni volta che ci torno,
andando, penso che chissà, questa volta, dopo questi altri 15 giorni, questo altro mese o più di permanenza, ne
ritornerò con un’altra idea, un poco più annoiato. Però non è così; ogni volta
ne vengo via sempre più attratto a restarvi, sempre più interessato.
I paesani che a volte mi accompagnano, uomini della Patagonia, per esempio impiegati a livello di operai presso
l’impresa mineraria della Provincia, persino loro, quando fumano nel mezzo di quei campi senza fine, ove ci si addentra col
4x4 ed anche a piedi, non buttano nel suolo neanche il mozzicone della sigaretta. Lo lasciano nell’auto o lo conservano in un
pezzetto di carta o in qualunque altra maniera. Non credo proprio che qualcuno li abbia educati in tal modo, è tutto
merito della Patagonia.
Se ci pensiamo bene tutte queste cure sono per non lasciare neppure una traccia tanto minima, in uno spazio tanto immenso ed
in posti che forse mai furono calpestati da piede umano e chissà se e quando lo saranno nuovamente. Un mozzicone di
sigaretta nessuno certamente più lo vedrebbe. Ma non si tratta di un rispetto al nostro prossimo, bensì: di un
rispetto istintivo alla Patagonia.
Così è che quando col 4x4 lasciamo la pista, in esplorazione degli spazi circostanti, al ritorno istintivamente
si cerca di rimettersi sulle stesse tracce della andata. Il semplice transito lascia una traccia nel terreno che comunque se
ne andrà in alcuni giorni, a seconda del suolo, della vegetazione e delle condizioni metereologiche, vento e acqua
essenzialmente. Però, perchè lasciare doppie tracce quando se ne può lasciare una sola? Perchè
questo disturbo superiore al minimo che si può arrecare?
E le tracce sono importanti, sono fatti molto importanti. Costituiscono a volte la ragione di grandi discorsi, di cose da
raccontare, di incognite da risolvere. Qui non ha più nessuna importanta quale partito politico vincerà le
prossime elezioni o quale squadra di calcio guadagnerà la coppa. Queste cose sono totalmente dimenticate, però
il significato di quelle tracce che insolitamente si sono incontrate, questo sì che è importante. E non solo
si parla di tracce nel campo, ma anche nelle piste che si percorrono. Anche in esse il transito è così raro
che una traccia invita a tutte le analisi. Mi ricordo quei films di indiani che con tanto piacere si vedono da
ragazzi, dove gli stessi indiani interpretano le tracce e sono capaci di dire da esse chi è passato, quanti e quando.
Sembra un poco fantasia di questi films, ma qui è realtà ed effettivamente, con un poco di esercizio, anche noi
impariamo a leggere tanto delle tracce, anche se nel nostro caso il più delle volte si tratta di auto, ma anche di
cavalli. Che tipo di auto, verso dove andava, da quanto tempo approssimativamente è passata: ben poco, poche ore,
giorni, se è ritornata dalla stessa strada o no. Sono fatti molto importanti in questi luoghi ove un giorno è
uguale all’altro.
La morfologia è tale che con una 4x4 si può spaziare ampliamente e raggiungere la maggioranza dei posti. Però
generalmente nella Patagonia del nord e centro-nord è sensibilmente più complicato per la presenza di cespugli spinosi,
con delle spine legnose lunghe anche più di 10 cm, durissime, che senza nessuna difficoltà perforano qualunque
pneumatico ed entrano perfino nel legno. E’ abbastanza normale che turisti sprovveduti rimangano con varie ruote perforate,
anche se i locali li avvisano per evitare problemi che potrebbero divenire molto seri. Per questo, con tutte le attenzioni
che si pongono, e dato la gravità che può risultare il rimanere bloccati e tanto isolati, è frequente il
viaggiare con tre ruote di scorta. Più a sud la vegetazione è più rada e mancano questi cespugli.
Noi, che giriamo in Patagonia modernamente attrezzati, all’inizio della giornata sintoniziamo la ricetrasmittente
ad onde corte alla frequenza ed alla ora conosciuta, per ascoltare dai guardaparchi delle aree protette delle Ande, i dati
sulle condizioni del tempo nelle loro zone, a varie centinaia di chilometri di distanza, ed interpretare, secondo come soffia
il vento, come potrà essere il tempo da noi più tardi. Queste sono le notizie che ci interessano; dopo si
spegne la radio, che si tiene più che altro solo per eventuali emergenze e ben pochi comunicati, che mediamente si
fanno meno che una volta al giorno. In questi ultimi tempi noi, uomini legati alla moderna tecnologia, è molto
probabile che l’unico strumento moderno che manterremo in funzione sia il GPS (Geodetic Positioning Satelital o
Localizazione geodetica per satellite). Come un telefonino cellulare con un piccolo schermo tipo agenda
elettronica, ricevendo il segnale di apositi satelliti, ci dirà le nostre coordinate esatte, con pochissimi metri di
possibile errore. Ci segnala pure l’altezza sul livello del mare, la velocità e direzione alla quale stiamo andando,
la distanza con altri punti precedentemente memorizzati, segnandoci, anche graficamente, itinerari premarcati manualmente o
per il semplice fatto di averli percorsi anteriormente e consentendo di muoverci liberamente e sapere sempre dove siamo,
andando anche alla cieca e senza mappa. Le mappe esistenti sono sempre molto incomplete e troppo generiche. Le strade e piste
marcate spesso non ci sono od, al contrario, molte volte non sono segnalate.
Questi lussi, però, non ce l’hanno i cosiddetti incaricati (los encargados) delle estanzie.
Chi sono? Sono i veri abitanti della Patagonia, che non possiamo neanche chiamare Paesani. Quanti sono?
Le stesse estanzie sono veramente poche. Le più vicine tra loro distano generalmente varie decine di chilometri, o
alcune leguas. La legua è l'unità di misura che si usa in Patagonia e si riferisce
alla superficie ed alla distanza, allo stesso tempo. Non è il caso di essere troppo raffinati in questo senso. Ci si
capisce sempre. Equivale a circa 25 Km2 (un quadrato di 5 Km di lato), o a 5 Km circa. Questa è l'unità minima
che solitamente si tratta in qualunque affare.
Molte di queste estanzie sono totalmente abbandonate, dimenticate da tutti. A volte con vecchie piste di accesso che non si
vedono più. Lo stato di abbandono è evidente, anche se, per il clima secco, ciò che resiste al vento si
altera molto lentamente. Così è facile vedere quelle tipiche ruote dei mulini a vento, ridotte in brandelli e
porzioni di tetti mancanti, mentre al contrario si possono trovare, ancora in relativo buono stato, quelle antiche carrozze
in legno, che siamo abituati a vedere nei vecchi film western. Sono esistite per davvero e quelle che incontriamo sono state
i mezzi di trasporto usati per quel viaggio di solo andata di chissà quanto tempo fa, da chissà quali avventurieri,
che sono rimasti lì finchè la Patagonia non li ha vinti.
Spesso le estanzie non del tutto abbandonate non differiscono di molto dalle totalmente abbandonate. Solo poche, delle poche
che sono nel totale, si trovano in condizioni classificabili come buone. Solo in un caso ho conosciuto una estanzia vissuta
da una giovane famiglia (padre, madre e tre figli ancora piccoli). Gente semplice, assimilata nell'ambiente. Forse gente felice,
pur senza sapere di esserlo. Unica lamentela un poco era che non potevano tenere la televisione, senza rendersi conto che forse
proprio questo era la loro salvezza. Purtroppo non potranno restare fissi lì per molto tempo. L'istruzione elementare,
quella di imparare a leggere e scrivere, è la stessa mamma che la da.
Una donna con tipici lineamenti di discendenza indios.
Una persona instruita; ha fatto sicuramente tutte le elementari e, soprattutto, la cosa più importante,
di saggi spontanei principi. Tra un po’, almeno per certi periodi, la famiglia probabilmente dovrà dividersi, per
permettere ai figli di frequentare la scuola, per lo meno per un certo tempo. In questo caso particolare il paese o città
più vicina è solo a due ore di distanza di camionetta, o poco più. Però questa gente non ha
alcun mezzo di trasporto che non sia il cavallo. Ovviamente neanche esistono mezzi pubblici che passino nelle vicinanze.
Sono anche fortunati perché in questo caso il proprietario della estanzia vive nella città vicina, a
Trelew, ed ogni tanto, se pur a volte a distanza di mesi, mantiene contatti con loro.
Rimane ancora qualche indio puro. Però gli indios veri, della tribù Mapuche (si legge Mapuce) ed
altre tribù simili, sono come il puma. E' molto difficile vederli. Vive ancora qualche
sporadica famiglia o piccolo gruppo in pochi punti sparsi della Patagonia, ma è come se non esistessero. Però sono molto pochi.
La maggioranza ormai rimane concentrata in alcuni punti delle valli andine, dove il governo
argentino e cileno hanno più volte tentato di socializzarli con difficoltà,
anche a causa di molti errori e di pochi sforzi.
Alle volte, alcune estanzie vengono abitate
solamente nel periodo estivo, da chi ha ancora animali. Non c’è agricoltura, l’allevamento
tipico è quello delle pecore. Le famose merinos sono sparse in buona parte
della Patagonia. Ma la lana è scesa di prezzo. Non mancano le difficoltà, come la
cenere eruttata da un vulcano andino e depositatasi nella Patagonia centromeridionale, su centinaia
di chilometri quadrati o non so quante leguas, alcuni anni fa. Si tratta di una
cenere silicea, molto dura ed abrasiva.
Le pecore, pascolando, mangiarono pure questa finissima
sabbia depositata su quello che era il loro alimento e così, col masticare si corrosero i
denti, fino a non potere più nutrirsi. A migliaia morirono di fame. Attualmente la cenere
è un poco meno, però chissà per quanti anni ancora rimarrà. Il solo a
giocare con essa è il vento che la muove di qua e di là. Quel vento che può far
volare tetti, non è capace di togliere questa polvere. Solamente la sposta da un punto
all’altro e poi la riporta dove l'ha tolta, quando cambia direzione, impolverando
per l’ennesima volta, ad ogni spostamento, quei poveri arbusti che potrebbero essere il pascolo
delle pecore.
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ultimo aggiornamento 19/10/2021