Louang Prabang 2/1/2004/ venerdì
Bun è uno dei tanti monachelli di Louang Prabang, antica capitale e città sacra. Vive al Vat Xieng Thong, uno dei tanti templi sparsi per la penisola su cui sorge la città. Sogna una sola cosa: andare a Roma a trovare un suo amico italiano. Ci tiene a ripetere come un pappagallo le poche frasi inutili di italiano che ha imparato.
La mattina all'alba Bun sfila lungo il corso principale assieme ad altri ragazzi come lui a ricevere le offerte che uomini e donne inginocchiati versano nella loro saccoccia a bandoliera senza levare lo sguardo. Riso cotto e glutinoso, ma anche cracker o pacchetti di Mars. A vederli sfilare tutti assieme - è l'alba - mi rendo conto che le loro tenute presentano colori diversi che vanno dal rosso scuro tibetano allo zafferano all'arancione acceso. Sono bambini, giovanissimi e vecchi. Pochi i monaci di mezza età. Degli assistenti accompagnano la sfilata dei monaci con grandi sacchi di nylon dove riservare l'eccedenza di offerte una volta che le saccocce risultano strapiene. Gli offerenti sono in minoranza locali e in maggioranza turisti coreani, tailandesi o vietnamiti. I loro minibus attendono discretamente sul bordo del marciapiedi.
Centinaia di boutique offrono ai turisti le perle dell'artigianato locale. Chilometri di sciarpe, quaderni di carta di riso, lampioni di carta colorata, monili e teste di Buddha in bronzo. Al mercato donne con i bambini al seno offrono oppio, marijuana, si offrono. Su un banchetto bottiglie contenenti serpenti, scorpioni, e strani rettili d'acqua all'interno di un liquido giallastro promettono performance sessuali irripetibili. Su un altro banco delle bussole istoriatee sacchi di scorze di corteccia dalle proprietà medicamentose. Un vecchio mi mostra un sacco di cortecce e mi tocca la testa…Vogliono curare il mal di testa, le cortecce, oppure calmare le angoscie, oppure rendono magicamente più intelligenti? Il vecchio insiste e si tocca la testa pure lui.
Louang Prabang non è altro che una stretta striscia di terra in mezzo all'acqua di due fiumi: l'inevitabile Mekong e il Nuam Khan, un suo affluente. Oltre il fiume le montagne. Al centro della penisola una collina abbastanza alta da dominare il paesaggio su cui si erge una pagoda rossa e oro. Usciamo dalla città in bicicletta. Sono alla ricerca di uno zaino nuovo. Le cinghie del mio zaino sono state strappate nel trasporto aereo e in vista della camminata che ci aspetta devo assolutamente trovare uno zaino nuovo. Lo trovo al mercato cinese, vicino allo stadio. Qui tutto è made in Cina dai venditori alle lampadine elettriche alle falciatrici ai calzetti ai cappelli borsalino. Per quindici dollari trovo uno zaino come non ne ho mai sognati in vita. Nero e grigio, doppie cerniere di sicurezza, doppia chiusura, tasche esterne e interne. Solido. Efficiente.
Un tedesco che vive da tanti anni in città mi rivela che la frontiera che abbiamo intenzione di oltrepassare a piedi per raggiungere il Vietnam è sigillata ermeticamente agli occidentali. Insisto. Magari pagando i doganieri, propongo. Dice che è pericoloso. I laotiani si fanno corrompere, mi dice, ma i vietnamiti non vi faranno passare mai. E' la frontiera dei trafficanti d'oppio, aggiunge. Non hanno nessuna intenzione che degli occidentali ficchino il naso da quelle parti. Prima di salutare mi raccomanda di non tentarci nemmeno…"Eviterete sofferenze, dice…"
Ne parlo con la mia vicina, una laotiana che vive in California, di ritono in città per visitare la famiglia. Siamo entrambe distese a pancia in giù in una capanna su palafitte e ci facciamo massaggiare. Farsi massaggiare è una delle attività più diffuse in questo paese. Ci si fa massaggiare per rilassarsi, per stimolare i muscoli, per curare le malattie, ci si fa massaggiare da vecchie donne magre dai muscoli d'acciaio e dalle dita forti come gli artigli di un aquila, da ragazzi delicati come fanciulle, da giovani donne assenti. Daniel spiega che là dove c'è scritto karaoke si praticano massagi erotici. Ancora in Laos è meno evidente che in Vietnam, mi dice. Ma verrà. Verrà anche qui. La mia vicina laotiana dice che lei non sapeva nemmeno che ci fosse una frontiera a Dien Bien Phu, ma per non deludermi dice che possiamo tentare e che passeremo lo stesso. Strano paese questo in cui la dolcezza è mista alla menzogna e la realtà è un effetto d'annuncio.
Nel raggiungere gli amici, la sera, mi fermo a riposare nel cortile di un tempio. E' l'ora del canto. La solita nenia avvolgente…
Louang Prabang- Mouang Khouam 3/1/2004 - sabato
Ritroviamo il fiume. Non il Mekong ma il Nuam Oou, l'ennesimo affluente. Sdraiata sul fondo della barca in legno, sotto una tettoia di lamiera, scrivo queste note. E' mattina, fa freddo, e un leggero strato di nebbia ci accompagna. E' questo, senza dubbio, il fiume del mio universo cinematografico. Stretti tra pareti verticali, lo risaliamo circondati da montagne coperte di vegetazione che sembrano altissime. Grigio, verde e rosso. Il grigio dell'acqua e delle rocce che spuntano qui e là. Il verde degli alberi, palme e un'infinità di specie sconosciute abbarbicate alle rive, dalle radici aggrovigliate che scendono nell'acqua e poi risalgono fino a metà tronco. Il rosso di una terra che a tratti è grassa, a tratti è polverosa. Anse, curve, rapide che la barca supera dando motore. Gente che vive lungo il fiume. Gente che lo naviga in canoe scavate nel tronco degli alberi o arrangiate alla meglio unendo assieme due o tre grossi fusti di bambù. A pagaiare sono dei bambini, a volte piccolissimi che sembrano seduti direttamente sull'acqua. Ridono, quando ci vedono passare ma non fanno mai ciao con la mano. A volte salutano nel segno universale importato dall'America. Pollice in alto. Tutto O.K.! Sulle rive grossi maiali rosa, maiali piccoli e neri, bufali d'acqua di cui appena si intravvedono muso e occhi. Donne che lavano tessuti. Donne che lavano bambini. Donne che si lavano. Una frenetica attività lavatoria.
Attraverso la vegetazione fittissima si intuiscono capanne su palafitte fatte di stuoie di bambù intrecciato. Qui e là tratti di montagna bruciati e nudi. A metà costa, talvolta, una capanna abbandonata. Probabilmente tagliano gli alberi mi dico, alberi dai legni pregiati, teck, palissandro. Poi bruciano tutto per rifare l'humus. Il capitano della barca non parla. Infastidito si volta indietro quando qualcuno di noi accenna a spostarsi disequilibrando pericolosamente l'imbarcazione. A tratti qualcuno dalla riva fa segno di chiedere un passaggio. Prendiamo su un uomo che dopo una buona mezz'ora verrà scaricato in mezzo al nulla, più a nord, sulla riva destra del fiume. Una donna e due bambine piccole salgono per scendere di nuovo in prossimità di un villaggio.
Su una montagna che si para verticale di fronte a noi sono scavate delle nicchie. Eremiti? Nascondigli? Depositi di munizioni? Il sentiero Ho Chi Minh passava esattamente per questo fiume. I vietcong attraversavano la frontiera con il Laos nei dintorni di Dien Bien Phu, scavalcavano le montagne fino a raggiungere il fiume. Di qui scendevano in battello fino a Louang Prabang e poi ancora più a sud fino in Cambogia da cui penetravano nel Vietnam meridionale.
Non seguiamo i consigli del tedesco e decidiamo unanimi di tentare il passaggio. Daniel ha totale fiducia nel potere del dollaro. Catherine della fortuna o del caso. Claudio non ci crede che passeremo ma non si oppone e lascia che le cose seguano il suo corso.
Dei pali di bambù piantati fitti lungo la riva con drappi rossi e gialli che si agitano appena. Un déjà vu. Poco prima di raggiungere Kurtz, nel film di Coppola, gli stessi pali e gli stessi drappi si allineano lungo le rive sabbiose del fiume. Nel film sono presagio di pericolo. Questi qui, quelli veri, sono un enigma. Che ci fanno? Cosa significano? Nessun essere umano nel raggio di qualche chilometro. Alberi, infiniti alberi, coprono le rive. Liane che pendono. Bambù che galleggiano. Incrociamo una barca come la nostra che scende. Le due barche accostano. I capitani si parlano. I passeggeri dell'una e dell'altra si squadrano. Noi, nell'allontanarci, facciamo ciao con la mano. Loro, i lao, sorridono senza muovere un dito.
Ho l'impressione di insinuarmi in qualcosa di profondo, di penetrare qualcosa che ad ogni chilometro perde intelleggibilità. Non è un percorso, ma piuttosto una penetrazione…
Attracchiamo a Mouang Khouam, l'ultimo villaggio raggiungibile via acqua. Posto su un'ansa del fiume all'incrocio con un altro affluente minore, il villaggio è leggermente sopraelevato sul fianco della montagna. Una passerella volante unisce le due rive. Non ci sono strade da queste parti, ma piste e sentieri. Ci aspettiamo di dormire in condizioni primarie e invece al centro del villaggio vi è una guesthouse in muratura, arredata lussuosamente. Segno di una scommessa su un futuro sviluppo turistico della zona o hotel di lusso per trafficanti d'oppio in attesa del doganiere compiacente? Nel cortile interno una partita di badminton schiera la squadra di Dien Bien Phu alla squadra locale. Musica a tutto volume e il solito imbonitore intrattenitore che al microfono urla falli e punteggi. Le riserve del badminton si affollano attorno a noi. Sono giovani membri del partito, ben vestiti e dotati tutti di luccicanti moto da cross. Ci vuole quasi un giorno, ci dicono, per percorrere in motocicletta l'ottantina di chilometri che separano la frontiera dal villaggio. La frontiera cinese è leggermente più lontana, ma ci si arriva prima insistono. Nessun problema a passare se abbiamo il visto. Potremmo andare in Cina, suggeriscono. Dalla frontiera col Vietnam, invece, non si passa. E' chiusa, sigillata. Si offrono ridendo di accompagnarci comunque Daniel che, come San Tommaso, forte della panoplia di falsi documenti preparati ad hoc - una falsa lettera del Ministero degli Affari Esteri vietnamita che lo definisce amico del paese, un falso documento diplomatico francese, timbri e lettere di raccomandazione, tutti altrettanto falsi - vuole constatare de visu quanto oramai è evidente. Nel frattempo, in cinque decidiamo di partire due giorni in montagna. Marie ci aspetterà al villaggio a causa di una caviglia gonfia e dolorante. Daniel andrà in frontiera e se non sarà di ritorno tra due giorni, significherà che passare si può e dunque ci organizzeremo per raggiungerlo là.
Un ragazzo del paese propone di farci da guida in montagna. Saremo di ritorno tra due giorni. In un inglese approssimativo ci avverte che si sale molto, dice. Otto, nove ore di marcia. Ce la faremo? Col piede dolomitico che abbiamo cosa sono otto nove ore?
Mouang Khouam/ Ban Sleung Ouam/ Mouang Khouam --- 4-5 gennaio 2004
La notte a Ban Sleung Ouam, villaggio della minoranza Akka, sotto minoranza Mong, è stata una notte di rumori strani. E'possibile che il mio ricordo sia soprattutto rumori? Nella capanna dove dormiamo il rumore di bambini che piangono, dei vecchi che tossiscono, dei bambini, una bambina mi sembra, che tossisce pure lei accanitamente. Il rumore del fuoco che crepita in mezzo alla stanza. Non c'è camino e il fumo che ha completamente annerito le pareti di legno sale e fuoriesce a fatica tra gli interstizi del bambù. Attorno al fuoco sbircio uomini seduti in cerchio che fumano l'oppio dentro lunghe pipe anch'esse in bambù. Fuori le urla dei derattizzatori, ragazzini armati di arco e frecce che danno la caccia ai topi nascosti nelle cataste di legno. Di nuovo all'interno le stuoie che scricchiolano. Nella penombra un uomo vecchissimo massaggia Djang, il ragazzo che ci ha accompagnato fin qui, usando soprattutto i piedi e tirando all'indietro braccia e gambe. La porta della capanna cigola ogni volta che qualcuno entra o esce. Fuori le scrofe grugniscono. Qualche cane abbaia e poi smette.
All'entrata del villaggio su una picca alta tre metri una testa di cane mozza con le fauci tenute spalancate da un bastone e la lingua gonfia e nera che penzola di lato. Djang vuole rassicurarci quando dice che è un segno di benvenuto? Accanto al cane un gruppo di ragazzi lanciano coi piedi al di là di una rete una palla di striscie di vimini intrecciate. Alla vista di Catherine che arranca sotto uno zaino smisurato in pantaloncini corti kaki, urlano di gioia.
Ci guardano, ci scrutano. Si tengono in disparte. Poi l'intero villaggio ci accompagna alla fonte dove tentiamo di lavarci sotto un filo d'acqua che scende dalla roccia. Sono tutti attorno a noi e ci guardano fissi. Imbarazzati ci laviamo a pezzi, sommariamente. Siamo coperti di polvere. La polvere rossa del sentiero che abbiamo percorso, stretto tra erbe altissime.
Non è bello camminare in queste montagne. Non esistono radure, panoramiche, non si cammina mai in spazi aperti, ma sempre in mezzo ad erbe alte, che soffocano ogni visuale. Dopo alcune ore di salita si perde il senso della direzione e dello spazio. La salita è monotona e claustrofobica. Pura fatica. Caldo e fatica. C'è un silenzio totale e assoluto. Nessun uccello, nessun animale, nessun insetto.
La mattina abbiamo attraversato un paio di villaggi adagiati nei pressi di qualche ruscello che guadiamo malamente. Villaggi bombardati accanitamente durante quella che ingiustamente viene chiamata guerra del Vietnam, se si pensa che il paese più bombardato della storia è stato proprio l'ufficialmente neutrale Laos. Ovunque resti di bombe americane che la gente utilizza nelle maniere più svariate. Come sostegni alla base delle capanne. Separate in due come bacini per raccogliere l'acqua. Come mangiatoie per i maiali. Djang ci dice di restare nel sentiero. Vi sono ordigni inesplosi un poco ovunque, ed è pericoloso allontanarsi anche di qualche metro. In un villaggio una pagoda abbandonata dai monaci che, dice Djang, se ne sono andati perché non volevano più vivere in zone così disagiate.
Al villaggio dove dormiamo inizia il defilé incessante dei malati che vengono a farsi curare da noi: due insegnanti di italiano, un architetto, una fisica nucleare e una dirigente EDF. Disponiamo di un tubo di arnica, di un flacone di hexomedin per disinfettare, cerotti e aspirine. Trattiamo arti slogati con la pomata all'arnica, disinfettiamo le ferite, e distribuiamo le aspirine. Nel ruolo di non medici senza frontiere siamo assolutamente inadeguati ma è impossibile farci capire e rifiutare le cure. Una ragazza mi tossisce forte davanti per farmi capire i sintomi della sua malattia. Faccio un salto indietro chiedendomi quando ho fatto l'ultima volta il richiamo contro la tubercolosi e non so assolutamente cosa fare, ma lei insiste, mi prende la mano, e allora le spalmo un pochino di arnica sul petto sentendomi come un medico di Molière…Forse l'effetto placebo, mi dico….La ragazza se ne va soddisfatta. Le consultazioni riprendono la mattina dopo all'alba, quando il villaggio si sveglia al grido forsennato dei galli.
Di cosa vive questa gente? Djang dice che un tempo coltivavano i papaveri, che due anni fa l'esercito ha bruciato loro i campi e che oggi di campi gliene restano appena due, ben nascosti, aggiunge. Una donna inizia a scuoiare una marmotta vicino al fuoco. Temo che vogliano offrircela per colazione, ma Claudio estrae prontamente dallo zaino qualche bustina di Nascafé che diluiamo nell'acqua bollente.
Gente povera e miserabile che vive nella polvere e nel fango tra magre galline, oche, maiali e bastardi di cane. Nessun romanticismo, nessun mito del buon selvaggio, solo occhi sgranati e stupiti, bocche annerite, e tanti, troppi bambini. Non si lasciano fotografare così come sono. Si scherniscono. I bambini al seno delle madri o sulla schiena dei fratelli più grandi urlano non appena mi avvicino loro. Una famiglia, padre madre giovanissimi e due figli piccoli, poco prima che noi si riparta, corre a cambiarsi. Una volta vestiti a festa, nel costume tradizionale di questo popolo, minoranza fra le minoranze, chiedono di farsi fotografare. Sono eleganti. In pantaloni blù notte lui, carica di monili d'argento lei e le cuffiette che i bambini portano sulla testa. Si fanno fotografare di fronte alla loro capanna. Guardano seri fisso dentro l'obiettivo.
Non ci accompagnano all'uscita del villaggio, ma fino alla curva del sentiero ci accompagna il loro sguardo serio.
Di nuovo a Mouang Khouam. Daniel non c'è. E' rientrato dalla frontiera a mani vuote ed è ripartito qualche ora fa per Loaung Prabang per cercare un volo che ci porti ad Hanoi. Lascia il nome dell'albergo e un vago appuntamento per l'indomani sera alle sette.
Decidiamo di raggiungere Louang Prabang il giorno stesso. Bisogna ridiscendere il fiume fino ad un villaggio da cui se tutto va bene dovremmo raggiungere entro notte l'antica capitale. Il nostro viaggio cambia aspetto e direzione. Non arriveremo più a piedi in Vietnam come avevamo immaginato, né cammineremo sulle montagne a nord di Dien Bien Phu.
Non tutto va bene. Fin dall'inizio della navigazione a ritroso sul fiume capiamo che il motore della barca affittata per scendere a valle non funziona come dovrebbe. Il capitano, un ragazzo giovanissimo con un berretto di lana calcato sugli occhi, è nervoso, si volta spesso a sentire il rumore che fa il motore. Un rumore sordo da motore ingolfato. Si ferma ripetutamente. Smonta, rimonta, pulisce le candele, riparte per fermarsi di nuovo. Il fiume a scenderlo in queste condizioni non è più lo stesso. Non guardiamo più le montagne, gli alberi, le rive e i bambini che pescano, ma l'orologio. La notte cade inesorabile alle sei in punto. Il tramonto è brevissimo, qualche minuto appena, e subito dopo il buio. Cerchiamo di calcolare quanto manca all'arrivo. Lanciamo ipotesi: quella montagna me la ricordo, mancano due ore. Quel villaggio anche. Le picche imbandierate sulla riva, che scopriamo essere poi un mercato. Manca troppo tempo. Non ce la facciamo. Qualche minuto prima del tramonto la barca attracca ad una riva sabbiosa e il capitano fa segno che non si può più continuare. Insistiamo stoltamente e stupidamente, indotti dal nugolo di zanzare che attacca non appena la barca si ferma, che bisogna continuare. Il ragazzo intimidito non osa dire no e si riparte. Più nessuna possibilità di sosta ora. Il fiume scorre veloce tra pareti di roccia verticali. Scende la notte e nel buio fatichiamo a distinguere le rocce che affiorano, i tronchi che galleggiano, i banchi di sabbia.
Il ragazzo accende una grossa pila e fissa concentratissimo l'acqua scura. Incontriamo una piroga che ci si para a fianco di colpo. La pila illumina lo sguardo allibito degli uomini che pagaiano. Ho paura. Tutti abbiamo paura. Sento il rumore dei denti di Claudio che sbattono dalla paura. Non ci scambiamo una parola per un'ora intera che sembra un secolo. In prossimità delle rapide il capitano dà motore e io chiudo gli occhi dallo spavento. La barca oscilla, gira, sembra che sbatta ma in realtà le rocce che vedo arrivare all'ultimo momento la barca le schiva. Andiamo avanti nel buio e nel silenzio. In prossimità del ponte di cemento che segna l'arrivo al porto fluviale la luna piena illumina l'acqua sciogliendo definitivamente la mia angoscia.
Il minibus che affittiamo per percorrere le tre ore di strada che ci dividono da Louang Prabang è talmente male in arnese che ad ogni sobbalzo il portellone posteriore si spalanca e gli zaini rotolano sull'asfalto. L'autista ride imperturbabile mentre noi corriamo affannosamente a recuperare i nostri averi disseminati su decine e decine di metri di carreggiata. Claudio canticchia sottovoce l'intero repertorio dei Beatles da Please please me a Abbey Road.
Louang Prabang 6/1/2004 - martedì
Esiste una parola francese che descrive perfettamente questa giornata: flaner. Che significa girellare, riposarsi, far niente, essere senza programmi, lasciarsi andare all'onda. Non programmo nulla, non visito nulla, passo la giornata da un caffé all'altro, da un muretto all'altro e mi guardo attorno. La linda Louang Prabang con i suoi cappuccini all'italiana e le baguettes alla francese è il sogno di tutti i viaggiatori. Un posto dove ci si sente puliti. Puliti e ricchi. E' anche il posto dello shopping, Louang Prabang. Chi è passato per di qua e non ha comprato una sciarpa tessuta al telaio alzi la mano! I due fiumi che chiudono la cittadina inducono oltremodo alla calma. Divoro un piatto di striscioline di manzo aromatizzate alla citronella e guardo una barca/casa che scende lentamente il fiume. Chi abiterà in quella casa rosa di legno dalle imposte blù situata a poppa del barcone? Un olandese? Una famiglia di commercianti lao? A prua vi è un altarino attorniato da fiori.
Domani all'alba riprendiamo la strada per Vientiane e da là un aereo che ci porterà ad Hanoi. Ha organizzato tutto Daniel che ritroviamo per caso nel caffé dove facciamo colazione. La strada che prenderemo non è una buona strada, ci dice. L'asse Louang Prabang/Vientiane è asfaltata e comoda. Attraversa la catena montagnosa di Xianghoang in mille tornanti per scendere poi verso Vang Vueng e quindi Vientiane. Il problema, dice, sono gli assalti alla carovana. Il tratto montagnoso non è sicuro, ma gli hanno assicurato che da un paio di mesi è pattugliato da soldati dell'esercito regolare che garantiscono il passaggio.
Louang Prabang/Vientiane/Hanoi - 7/1/2004 mercoledì
Il soldati regolari ci sono. Ogni quindici/venti chilometri ce n'è uno seduto per terra sul lato della strada a fumarsi una sigaretta sotto una tettoia improvvisata. Sono scamiciati e mal in arnese e tengono il fucile mitragliatore appoggiato sulle ginocchia. Assomigliano più a miliziani che a soldati regolari. Forse più a banditi che a soldati regolari. Il nostro autista prima di affrontare la montagna si ferma in un villaggio dove scendiamo a bere un caffé - caffé lao nero, amaro e denso come il fondo di una moka. Un nugolo di bambini seminudi ci circonda e mima i gesti di Bruce Lee. L'autista ha un gran d'affare a confezionare strani pacchetti di sigarette sotto cellophane. Ne prepara una decina - sacchettini di nylon contenenti ognuno quattro sigarette - che poi sistema sul sedile accanto al suo.
Ad ogni posto di blocco che poi non blocca nessuno rallenta leggermente e getta uno di questi pacchettini fuori dal finestrino in direzione del soldato di turno. Vuole farselo amico, o è semplicemente un ragazzo gentile?
Di colpo lungo la strada totalmente deserta di questa montagna vediamo arrancare una ragazza in bicicletta con grande zaino sulle spalle. Poche centinaia di metri più a valle vi è il suo compagno. Anche lui affaticato con un grande bandana rosso che gli copre la testa. Australiani? Inglesi? Svedesi? Li guardiamo stupiti e ammirati dal finestrino. Così stupiti che non abbiamo nemmeno tempo di fare ciao con la mano. Loro si fermano e ci guardano sparire dietro una curva.
Quasi 400 chilometri, dieci ore di viaggio. A mezzogiorno l'autista fa una sosta/pranzo al villaggio di Vang Vueng, dall'altra parte delle montagne. Ci dev'essere qualcosa nei dintorni, mi dico perché oltre a noi ci sono altri occidentali e cinque o sei guesthouse. Due signore olandesi di circa sessant'anni mi spiegano che nei dintorni ci sono colline e cascate e torrenti dove fare rafting. Loro non si muovono dal villaggio da più di due settimane. Non vanno a vedere le cascate né i torrenti. Stanno nel villaggio e chiacchierano con la gente. Dicono che sono innamorate della gente. Sedute al tavolino del bar vicino a me mangiano con grazia e gentilezza un sandwich alle verdure. Vestite come sono in gonna da ufficio e camicetta senza maniche, sembrano uscite da un'assemblea di attiviste dell'esercito della salvezza. Ci salutano sorridendo e ci augurano buon viaggio.
Hanoi 7-11/1/2004
Non è stato amore a prima vista quello tra me e Hanoi. E' stata una lenta conquista frutto di un intenso corteggiamento.
Lien che ci accoglie alla guesthouse è una ragazza scatenata. Parla, sorride, gesticola, si agita, fa di tutto per assicurarsi che noi non si cambi albergo e che si resti da lei. Restiamo, più che altro per non deluderla. La guesthouse è una delle tante case della vecchia Hanoi, larga appena qualche metro e alta quattro piani. Due camere per piano, otto camere in tutto. Fuori il concerto assordante di milioni di motorini.
Attraversare la strada ad Hanoi necessita di incoscienza, coraggio e fiducia nel genere umano. Resto almeno un quarto d'ora sul bordo della strada ad attendere che il traffico si diradi finché non mi dicono che così non si fa. Ad Hanoi si scende dal marciapiede e si attraversa la strada a occhi chiusi e a passo costante. Guai a fare un scarto, guai ad un'esitazione. Le migliaia di motociclette, biciclette e ricsciò che scorrono come un fiume lungo le sue strade sanno perfettamente evitare il passante a patto che costui mantenga un'andatura costante.
Mi aspettavo che Hanoi fosse come Pnhom Penh. Una città assonnata e polverosa. Dove le donne vestono ancora gli abiti tradizionali e portano lunghi guanti bianchi fino al gomito. Così me l'aveva descritta chi c'era stato appena qualche anno prima. Polverosa, mi avevano assicurato, poco asfalto, luce a gas e tante, tante biciclette. Le biciclette ci sono, ma in netta minoranza rispetto alle moto, che sembrano inesauribili. Un fiume in piena quello delle moto. Maestoso, lento e regolare. Sembra che dietro ad ogni curva vi sia un mostro dalle fauci spalancate che vomita incessantemente moto. Moto e gioventù. Ragazzi e ragazze, quest'ultime bellissime, che circolano non si sa bene verso cosa. Si muovono, strombazzano con ritmata regolarità e evitano il più possibile di posare il piede a terra. Pare che sia una specie di codice o di gioco o di prova di abilità. Non fermarsi mai, evitare i passanti e soprattutto evitare di posare il piede a terra.
E' la città dei marciapiedi proibiti, Hanoi. Il segno del rifiuto della Francia colonizzatrice e razionale. I marciapiedi accolgono le motociclette, cinesi per lo più, che si sistemano su di essi a rastrelliera. Tra una moto e l'altra donne accovacciate sui talloni cucinano, bollono, friggono. Famiglie intere accovacciate mangiano o, più semplicemente, chiacchierano. Qua e là donne giovani e vecchie trasportano a bilanciere ceste di arance o banane, o ceste di forbici e coltelli, o ceste coperte da drappi. Difficile indovinare cosa contengono. Giorno e notte le donne/bilancere vagano per la città vecchia e anche col cielo grigio indossano cappelli di paglia a forma di cono tenuti stretti sotto il mento da cenciosi foulard a quadretti. Si districano nel traffico con andatura sicura ed elegante. Piccoli passi veloci. Qualche sosta per equilibrare il carico.
Per guardare le facciate delle case bisogna individuare uno spazio sicuro dove fermarsi.
Le case di Hanoi sono tutte bellissime. Splendide quelle della città vecchia. Imponenti e coloniali quelle degli antichi quartieri francesi.
In questa città, grazie a Dio, il razionalismo in architettura non è mai arrivato. Le case sono quanto di più splendidamente irrazionale io abbia mai visto in vita. Altissime, strette e colorate quelle della città vecchia interrotte da terrazzi, terrazzini, bowindow, rientranze, balconi, sporgenze, balaustre, colonne, rampicanti, e ancora, vetro, legno, ceramica, ghisa, ferro battuto, pietra, tutti i colori e i materiali possibili che si mescolano in un bailamme di forme geometriche indecise tra rotondità ed angoli acuti. Una città concepita da migliaia di architetti improvvisati indotti a costruire in altezza forse per evadere i dazi calcolati in base alla larghezza delle facciate e forse per risparmiare sui prezzi del terreno costruttibile, data la quasi assenza di costi di manodopera.
Delle case coloniali, nascoste dietro giardini rigogliosi e cancelli, si intravvedono angoli e sprazzi di facciata se si passeggia lungo i grandi boulevard alla francese, a nord o a sud della città vecchia. Sono belle, ma meno speciali delle altre. Le abbiamo viste già da noi queste case inizio secolo, certo con meno verzura, con meno opulenza, forse, ma le forme non del tutto estranee, ci stupiscono meno.
Ad Hanoi, a poche ore dall'arrivo, decido di restare, evitando la visita alla vicina Baie d'Halong, già vista in decine di film, e della Pagoda dei Profumi posta, a pochi chilometri dalla città, su un'isola del Fiume Rosso. Sono questi i due principali spot turistici dei dintorni, ma io sento che non voglio staccarmi da questa città. Ho voglia di scoprirla piano.
E pian piano sento che la città si mostra a me. Pian piano camminando a caso lungo stradine, boulevard e lungo la riva dei tanti laghi interni che la rendono una città acquatica con barche, piroghe e pedalò a forma di cigni. Mi perdo nel dedalo di strade della città vecchia che fanno pensare alla Firenze comunale, caratterizzate come sono per corporazioni: la strada della seta invasa dagli occidentali, e quelle meno frequentate dei farmacisti tarassici, dei lavoratori della latta, dei pigmenti colorati, dei lavoratori della ceramica, degli orologiai, delle occhialerie, degli uccelli, dei pesci tropicali. Le strade dei parrucchieri che massaggiano per ore il cuoio cappelluto del cliente, le strade dei barbieri che fanno anche pedicure, manicure ed estraggono il cerume dalle orecchie col vecchio metodo della candela. Le strade degli hacker che piratano tutto quanto il mondo dell'informatica sia mai riuscito a produrre e per pochi dollari vendono copie di CD, DVD e software vario. I mercati hanno poco spazio ad Hanoi. La città vecchia è in realtà immenso mercato. Schiacciati tra una stradina e l'altra le bancarelle del pesce, della carne, delle spezie, della frutta e delle verdure. Donne e bambini carichi di borse di plastica si aggirano tentando di vendere al turista accendini con l'effigie di Ben Laden o Saddam Hussein - "Good men! Good, men!" - o magliette con il ritratto di Ho chi Minh.
Al museo della guerra, a qualche blocco dal mausoleo che contiene il corpo imbalsamato di Ho Chi Minh, le vittorie di questo popolo di formiche alacri contro giapponesi, francesi, cinesi, e americani vengono raccontate con i toni della più ridicola propaganda terzomondista. "Il fiero popolo vietnamita sconfigge il vile oppressore francese nella grande battaglia di Dien Bien Phu". Scritte inutili perché la storia basta a parlare da sola. Eloquente una delle tante foto esibite al museo. Quella di una ragazzina vietnamita, quasi una bambina, a piedi nudi, cappello di paglia in testa e mitragliatrice in mano che scorta un soldato americano prigioniero, tre volte più grande di lei e dotato del miglior equipaggiamento possibile.
Il volto ascetico da intellettuale romantico di Ho Chi Minh è presente ovunque, sovente affiancato ai ritratti dei governanti in carica. Un messaggio ingenuo che vorrebbe instillare nel popolo l'idea di continuità tra passato e presente ma che è inficiato dai volti grassi e butterati alla Noriega dei truffaldini rappresentanti della classe politica attuale. Gli stessi che si aggirano per i larghi viali in Mercedes con autista dai vetri fumé. Gli stessi che vivono nel lusso all'interno della città proibita, nel pieno centro della città, dietro alte mura protette da soldati.
A camminare lungo i larghi viali della città francese sono solo gli occidentali. Che cosa si cammina a fare, sembrano chiedersi i locali, lungo viali dai quali commercio e artigianato sono assenti? Capisco che in questa città adrenalinica passeggiare a caso è un lusso, una perdita di tempo. La vita è nel traffico, nei traffici, su cui si concentrano le energie dei milioni di giovani che ci vivono. I vecchi sono pochi. Se ne incontra qualcuno sul lungolago, in vestito tradizionale nero, capelli bianchi corti, lunga barba bianca a punta, occhialetti neri circolari.
Lien mi racconta che i giovani, la sera, circolano in motocicletta per la città con le loro morose, per fermarsi poi lungo il lago più grande a limonare. Sono migliaia effettivamente a limonare lungo il lago. Di ritorno dal grande ristorante collettivo in prossimità della strada diga che porta all'aeroporto, là dove si ammassano le botteghe degli antiquari e dei tombaroli, ci passo davanti. Il conduttore di ricsciò che mi riporta alla guest house me li indica con la mano, ride e aggiunge "Bum, bum, sida!" che interpreto facilmente come una messa in guardia a costumi sessuali diventati oramai troppo liberi.
Pian piano a forza di camminare e di battere la città individuo i pochi caffé all'occidentale, oasi di pace, specialmente quelli in cui si sale ai piani alti, in cima alle case, su terrazze lontane da tubi di scappamento e rumori. Sprofondata su un vecchio sofà di seta mezza sdrucita sorseggio un succo d'arancia. Sulla terrazza posta sul tetto della casa di fronte un viet abbronzato fa ginnastica. Alla mia destra un altro ragazzo, occidentale stavolta, ascolta un pezzo dei Led Zeppelin con gli occhi chiusi. Mi accorgo quando si alza che è fatto come una scimmia. Questo caffé- bar-terrazza dove la sensazione di pace viene accentuata da piante tropicali sparse qui e là e da un grande ventilatore marca Magneti Marelli che gira lento sul soffitto è poco lontano dalla strada delle fumerie d'oppio. Ci siamo passati davanti poco prima di arrivare al caffé. Sul marciapiede di fronte alle fumerie gruppi di uomini che giocano a carte concentratissimi. All'interno uomini distesi su lettini di paglia che aspirano dentro lunghe pipein bambù annerito. Il ragazzo si risiede sul divano inebriato dalla musica.
La sera ceniamo da Stephanie, la sorella di Catherine, ad Hanoi da quasi un anno. Lavora come medico in un ospedale privato. Ad Hanoi non c'è la malaria, ci dice. C'era stata la Sars e molti ospedali erano stati costretti a chiudere. Chi era dentro - malati, infermiere, medici - dentro c'è stato e talvolta è morto fino a quando non han tolto la quarantena. Grande scalpore aveva fatto, ci racconta, la morte di un medico italiano all'inizio dell'epidemia. Dice che lo conoscevano tutti, quel medico. Che era apprezzato e molto amato dalla gente. Molti pazienti occidentali? le chiedo. Lei ride e mi dice che ne arrivano molti che si sono fatti morsicare dalle pantegane che si nascondono dietro i water delle toilette dei ristoranti della città vecchia. La gente si siede, mi dice, e le pantegane impaurite mordono polpacci e caviglie. Per il resto qualche caso di dengue, e molte febbri e amebiasi. Complessivamente, conclude, Hanoi è una città abbastanza salubre. E' molto cattolica Stephanie e lo è anche Guillaume, il marito, che lavora per SOS International, un'organizzazione di cui non conoscevo l'esistenza che si occupa di emergenze sanitarie, individuali o collettive, in tutto il pianeta. Ci parlano entusiasti del giubileo e del papa e di un loro viaggio a Roma. Hanoi è appena oltre il cancello del giardino, ma a starsene a tavola tra francesi, in una bella casa arredata con gusto, a spalmare formaggio di capra su croccanti baguette sembra irreale.
L'ultimo giorno ad Hanoi, nelle ore che precedono la partenza, sono frenetica. Ho l'impressione che la città mi sfugga, mi si spiatarri tra le dita. Scopro angoli nuovi a poche decine di metri dalla guesthouse. Perché non ci ho fatto caso prima? Sono frustrata, non voglio partire. Dai grandi amori è difficile separarsi senza stati d'animo.
(Chiara Milanesi)
I miei viaggi in Indocina:
Vietnam e Cambogia
Vietnam del Nord
Laos e Cambogia
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1998 - 2022 Marco Cavallini
ultimo aggiornamento 19/10/2021